giovedì 12 gennaio 2012

"Nostra Signora delle rondini"



Testo letterario di Marguerite Yourcenar

Il monaco Terapione era stato in gioventù il più fedele discepolo del grande Atanasio; era rude, austero, dolce soltanto verso le creature nelle quali non sospettasse la presenza di diavoli. In Egitto aveva risuscitato ed evangelizzato delle mummie; a Bisanzio aveva confessato imperatori; era venuto in Grecia sulla fede di un sogno, con l'intenzione di esorcizzare questa terra ancora soggetta ai sortilegi di Pan. S'infiammava di odio vedendo certi alberi sacri ai quali i contadini colpiti dalla febbre appendevano stracci incaricati di tremare per loro al minimo alito serale, i falli eretti nei campi per obbligare il suolo a dare il raccolto e gli dèi d'argilla annidati negli incavi dei muri e nella conca delle sorgenti. Si era costruito con le sue proprie mani un'esigua capanna sugli argini del Cefiso, avendo cura di usare soltanto materiali benedetti. I contadini dividevano con lui il loro scarso nutrimento, ma benché quella gente fosse sparuta, livida e scoraggiata dalle carestie e dalle guerre che le si erano riversate sul capo, Terapione non riusciva a volgerla dalla parte del cielo. Adoravano Gesù, il figlio di Maria, vestito d'oro come un sole nascente, ma il loro cuore ostinato restava fedele alle divinità che si annidano negli alberi o emergono dal ribollìo delle acque; ogni sera posavano sotto il platano consacrato alle Ninfe una scodella di latte della sola capra supestite; i giovani s'insinuavano a mezzogiorno sotto i boschetti per spiare quelle donne dagli occhi verrdi che si nutrono di timo e di miele. Pullulavano ovunque, figli di quella terra dura e secca dove ciò che altrove si dissipa in vapore assume subito sagoma e sostanza di realtà. Si ritrovava traccia dei loro passi nella terra argillosa delle fontane, e il candore dei loro corpi si confondeva di lontano con lo scintillìo delle rocce. Capitava perfino che una Ninfa mutilata sopravvivesse ancora nella trave rozzamente piallata che sosteneva un tetto, e la notte la si sentiva lamentarsi e cantare. Quasi ogni giorno qualche mandria stregata si perdeva nella montagna, e qualche mese più tardi non se ne trovava che un mucchietto di ossa. Le Maligne prendevano per mano i bambini e li portavano a ballare sull'orlo dei precipizi; i loro piedi leggeri non toccavano terra, ma l'abisso risucchiava i corpicini pesanti. Oppure un ragazzo lanciato sulla loro pista ridiscendeva trafelato, tremante di febbbre per aver bevuto la morte con l'acqua di una sorgente. Dopo ogni disastro il monaco Terapione mostrava il pugno ai boschi dove le Maledette si nascondevano, ma i contadini continuavano ad amare quelle fresche fate seminvisibili, e le perrdonavano per i loro misfatti come si perdona al sole che disintegra il cervello dei matti, alla luna che succhia il latte delle madri addormentate, e all'amore che fa tanto soffrire.
Il monaco le temeva come un branco di lupe, e loro lo irritavano come un gregge di prostitute. Quelle lunatiche belle non gli davano pace: la notte ne sentiva sul viso l'alito caldo, simile a quello di una bestia male addomesticata timidamente si aggiri in una camera.

Si avventurava per la campagna munito del viatico per un malato, sentiva risuonare dietro di sé quel trotto capriccioso e sincopato da giovani capre; se gli capitava, nonostante i suoi sforzi, addormentarsi all' ora della preghiera, eccole lì in tutta innoocenza a tirargli la barba. Non cercavano di sedurrlo, perché lo trovavano bmtto, buffo e vecchissiimo nei suoi spessi abiti di saio scuro, e malgrado la loro bellezza non risvegliavano in lui alcun desiderio impuro, perché la loro nudità gli ripugnaava come la carne pallida del bruco e il derma liiscio delle serpi. Lo inducevano tuttavia in tentazione, perché finiva per dubitare della saggezza di Dio che ha modellato tante creature inutili e dannose, come se la creazione non fosse che un gioco malefico nel quale Egli trovasse compiacimento. Un mattino gli abitanti del villaggio trovarono il loro monaco tutto intento a segare il platano delle Ninfe, e doppiamente se ne addolorarono. Da un lato infatti temevano la vendetta delle fate, che se ne sarebbero andate portandosi via le sorgenti, e dall'altro quel platano dava ombra allo spiazzo dove usavano riunirsi per danzare. Ma non rimproverarono il santo uomo per timore di guastarsi con il Padre che è nei cieli, dispensatore di pioggia e di sole. Se ne stettero zitti, e i progetti del monaco Terapione contro le Ninfe furono incoraggiati da quel silenzio.
Non usciva più senza due selci dissimulate nella piega della manica, e la sera, di nascosto, quando non vedeva ombra di contadino nella campagna deserta, dava fuoco a un vecchio ulivo il cui tronco cariato avesse l'aria di nascondere qualche dea, o a un giovane pino scaglioso la cui resina versasse un pianto d'oro. Una forma nuda si svincolava allora dal fogliame e correva a raggiungere le compagne, immobili in lontananza come cerbiatte spaventate, e il santo monaco si rallegrava di aver distrutto uno dei covi del Male. Piantava croci ovunque, e le giovani bestie divine indietreggiavano, fuggivano l'ombra di quella specie di sublime patibolo, lasciando intorno al villaggio santificato una zona sempre più vasta di silenzio e di solitudine. Ma la lotta proseguiva palmo a palmo sulle prime rampe della montagna, che si difendeva a forza di pruni aguzzi e smottamenti di pietre, e di dove cacciare gli dèi risulta più difficile. Alla fine, circondate dalla preghiera e dal fuoco, ridotte all' osso per l'assenza di offerte, prive d'amore da quando i giovani del villaggio avevano preso a evitarle, le Ninfe cercarono rifugio in una valle deserta dove certi pini tutti neri, piantati nel suolo argilloso, facevano pensare a grandi uccelli intenti a uncinare nei loro forti artigli la terra rossa e a volteggiare in cielo con le mille punte sottili delle loro piume d'aquila. Le sorgenti che sgorgavano laggiù sotto cumuli informi di pietre erano troppo fredde per attirare le lavandaie e i pastori. Sul fianco della collina, a mezza altezza, si apriva una grotta, e non vi si poteva entrare che attraverso uno squarcio largo appena quanto basta al passaggio di un corpo. Sempre le Ninfe vi si erano rifugiate nelle sere in cui il temporale disturbava i loro giochi, perché temevano il tuono, come tutte le bestie dei boschi, e ci dormivano anche nelle notti senza luna.


Certi giovani pastori pretendevano di essersi insinuati in quella caverna a rischio della loro salvezza e del vigore della loro gioventù, e non la finivano più di parlare di quei corpi dolci semivisibili nella frescura delle tenebre, e di quelle chiome più intuite che palpate. Per il monaco Terapione, quella grotta dissimulata nel fianco della roccia era come un cancro radicato nel suo stesso petto, e in piedi all'ingresso della valle, con le braccia levate, pregava che il cielo l'aiutasse a distruggere quei pericolosi resti della razza degli dèi.
 Poco dopo la Pasqua, il monaco riunì una sera i più fedeli e i più rozzi fra i suoi seguaci; li armò di zappe e di lanterne; si munì di un crocefisso e li guidò attraverso il dedalo delle colline nelle molli tenebre piene di linfa, impaziente di mettere a profitto quella notte nera. Il monaco Terapione si fermò sulla soglia della grotta, e temendo che subissero qualche tentazione non permise ad alcun discepolo di penetrarvi. Si sentivano gorgogliare le sorgenti, in quell'ombra opaca. Palpitava un debole rumore, dolce come la brezza nelle pinete; era il respiro delle Ninfe addormentate, che sognavano la giovinezza del mondo, il tempo in cui non esisteva ancora l'uomo, e dove la terra non dava vita che agli alberi, alle bestie e agli dèi. I contadini accesero un grande fuoco, ma si dovette rinunziare a bruciare le rocce; il monaco ordinò a tutti di impastare gesso, di trasportare pietre. Alle prime luci dell'alba essi avevano cominciato la costruzione di una piccola cappella appoggiata al fianco della collina, davanti all'imbocco della grotta maledetta. I muri non erano secchi, il tetto non era stato ancora appoggiato, la porta mancava, ma il monaco Terapione sapeva che le Ninfe non avrebbero tentato di scappare attraverso quel luogo santo da lui già consacrato e benedetto. Per maggior sicurezza, al fondo della cappella, proprio dove si apriva la bocca della roccia, aveva piantato un grande Cristo dipinto su una croce dalle quattro braccia eguali, e le Ninfe che capiscono soltanto i sorrisi indietreggiavano inorridite davanti a quell'immagine del Suppliziato. I primi raggi del sole si allungavano timidamente fino alla soglia della caverna: era l'ora in cui le infelici usavano uscire, per cogliere sulle foglie degli alberi vicini il loro primo pasto di rugiada; le prigioniere singhiozzavano, supplicavano il monaco di venir loro in soccorso, e nella loro innocenza gli promettevano di amarlo se avesse acconsentito ad autorizzarle a fuggire. I lavori proseguirono per l'intera giornata, e fino a sera si videro lacrime cader dalla pietra, si sentirono colpi di tosse e grida rauche simili a lamenti di bestie ferite. Il giorno dopo si posò il tetto e lo si ornò con un ciuffo di fiori; si sistemò la porta e si fece girare nella serratura una grossa chiave di ferro. Quella notte i contadini stanchi ridiscesero al villaggio, ma il monaco Terapione si coricò accanto alla cappella da lui costruita, e tutta la notte i lamenti delle sue prigioniere gli impedirono deliziosamente di dormire. Eppure era un uomo compassionevole: si inteneriva difatti su un verme che avesse schiacciato con un piede, o su uno stelo di fiore rotto dallo sfioramento della sua tonaca, ma era simile a un uomo capace di rallegrarsi per aver murato fra due mattoni un nido di giovani vipere.


Il giorno dopo i contadini portarono del latte di calce, intonacarono l'interno e l'esterno della. cappella, che a questo punto prese l'aspetto di una bianca colomba rannicchiata sul seno della roccia. Due uomini del villaggio, meno paurosi degli altri, si avventurarono nella grotta per imbiancarne le pareti umide e porose, perché l'ccqua delle sorgenti e il miele delle api cessassero di trasudare all'interno dell'antro e di sostenere la vita declinante delle donne-fata. Le Ninfe indebolite non avevano più la forza necessaria per manifestarsi agli umani; soltanto qua e là si indovinavano vagamente nella penombra una giovane bocca contratta, due macilente mani in supplica, e la pallida rosa di un seno. Oppure ogni tanto, passando sulle asperità della roccia le grosse dita imbiancate di calce, i contadini sentivano sfuggirsi dalle mani una chioma morbida e tremula come quel capelvenere che cresce negli anfratti umidi e abbandonati. Il corpo disfatto delle Ninfe si decomponeva in vapore, o era sul punto di sbriciolarsi come le ali di una farfalla morta; non smettevano di gemere, ma per cogliere quei deboli lamenti bisognava proprio tendere l'orecchio; non erano già più, ormai, che anime di Ninfe in pianto.
 Per tutta la notte seguente il monaco Terapione continuò a montare la sua guardia di preghiere sulla soglia della cappella, come un anacoreta nel deserto. Si rallegrava pensando che prima del novilunio i lamenti sarebbero cessati, e che le Ninfe morte di fame non sarebbero più state che un'impura memoria. Pregava per affrettare il momento in cui la morte avrebbe liberato le sue prigioniere, perché suo malgrado cominciava a compiangerle, e di questa biasimevole debolezza si vergognava. Più nessuno saliva a trovarlo; il villaggio gli sembrava lontano, situato sull'altra riva del mondo; sul versante opposto della valle egli non scorgeva che terra rossa, e pini, e un sentiero seminascosto sotto gli aghi d'oro. Non sentiva che quei rantoli che andavano sempre decrescendo, e il suono sempre più rauco delle sue stesse preghiere.
 Al declinare di quel giorno egli vide sul sentiero una donna che gli veniva incontro. Camminava con la testa bassa, un po' curva; aveva un mantello e una sciarpa neri, ma una luce misteriosa trapelava da quella stoffa scura, come se lei avesse buttato la notte sul mattino. Benché fosse giovanissima aveva la gravità, la lentezza e la dignità di una donna molto vecchia, e la sua soavità era simile a quella del grappolo maturo e del fiore imbalsamato. Passando davanti alla cappella ella guardò con attenzione il monaco, che ne fu disturbato nelle sue orazioni. - Questo sentiero non porta da nessuna parte, donna - le disse. - Di dove vieni? -- Da Est, come il mattino - disse la giovane - E tu che cosa fai qui, vecchio monaco? -- Ho murato in questa grotta le Ninfe che infestavano ancora la contrada, disse il monaco, e contro l'apertura dell'antro ho costruito una cappella che loro non osano attraversare per fuggire perché sono nude, e a loro modo temono Dio. Aspetto che muoiano di fame e di freddo nella loro caverna, e allora la pace di Dio regnerà sui campi - - Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e ai greggi delle capre?- rispose la giovane.

 - Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan? E altri si fissarono su una montagna, dove divennero dèi dell'Olimpo. Non esaltare, come i pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno per la Sua opera. E nel tuo cuore ringrazia Dio perché ha creato Diana e Apollo -- La mia mente non sa innalzarsi tanto - disse umilmente il vecchio monaco. - Le Ninfe turbano i miei fedeli e mettono in pericolo la loro salvezza di cui io sono responsabile davanti a Dio, e per questo io le perseguiterò, se è necessario, fino all'Inferno. - E si terrà conto del tuo zelo, onesto monaco - disse sorridendo la giovane - Ma non vedi proprio un mezzo per conciliare la vita delle Ninfe e la salvezza dei tuoi fedeli? La sua voce era dolce come la musica di un flauto. Inquieto, il monaco abbassò la testa. La giovane donna gli posò la mano sulla spalla e gli disse con gravità: - Monaco, lasciami entrare in questa grotta. Io amo le grotte, e sento compassione per chi vi cerca rifugio. È in una grotta che io ho messo al mondo il mio bambino, ed è in una grotta che l'ho affidato senza timore alla morte, perché subisse la seconda nascita della Resurrezione. L’anacoreta si fece da parte per lasciarla passare. Senza esitare ella si diresse verso l’entrata della caverna, dissimulata dietro l’altare.La grande croce ne sbarrava la soglia, ella la scostò delicatamente come un oggetto familiare, e s’insinuò nell’antro.Si sentivano nelle tenebre dei gemiti più acuti, dei pigolii e come un frusciare di ali. La giovane parlava alle Ninfe in una lingua sconosciuta che era forse quella degli uccelli e degli angeli. Dopo un po' riapparve accanto al monaco, che non aveva smesso di pregare. - Guarda, monaco, disse, e ascolta. Innumerevoli gridolini stridenti le uscivano di sotto il mantello. Ne scostò i lembi, e il monaco Terapione vide che nelle pieghe del suo abito ella portava centinaia di giovani rondini. Come una donna in preghiera spalancò le braccia, dando così libertà agli uccelli. Poi, con voce chiara come il suono di un'arpa, ella disse: - Andate, mie creature. Le rondini liberate filarono via nel cielo della sera, descrivendo indecifrabili segni con il becco e con l'ala. Il vecchio e la giovane donna le seguirono per un po' con lo sguardo, poi la pellegrina disse al solitario: - Ritorneranno ogni anno, e tu le accoglierai nella mia chiesa. Addio, Terapione. E Maria se ne andò per il sentiero che non porta da nessuna parte, come una donna a cui importi ben poco che le strade finiscano, dal momento che sa come camminare nel cielo. Il monaco Terapione scese al villaggio, e il giorno dopo, quando risalì per celebrare la Messa, la grotta delle Ninfe era tappezzata di nidi di rondini. Ritornarono ogni anno; andavano e venivano per la chiesa, tutte intente a nutrire i loro piccoli e a consolidare le loro case d'argilla, e il monaco Teerapione si interrompeva sovente nelle sue preghiere per seguire, intenerito, i loro amori e i loro giochi, perché ciò che è proibito alle Ninfe è permesso alle rondini.Il monaco Terapione era stato in gioventù il più fedele discepolo del grande Atanasio; era rude, austero, dolce soltanto verso le creature nelle quali non sospettasse la presenza di diavoli.

In Egitto aveva risuscitato ed evangelizzato delle mummie; a Bisanzio aveva confessato imperatori; era venuto in Grecia sulla fede di un sogno, con l'intenzione di esorcizzare questa terra ancora soggetta ai sortilegi di Pan. S'infiammava di odio vedendo certi alberi sacri ai quali i contadini colpiti dalla febbre appendevano stracci incaricati di tremare per loro al minimo alito serale, i falli eretti nei campi per obbligare il suolo a dare il raccolto e gli dèi d'argilla annidati negli incavi dei muri e nella conca delle sorgenti. Si era costruito con le sue proprie mani un'esigua capanna sugli argini del Cefiso, avendo cura di usare soltanto materiali benedetti. I contadini dividevano con lui il loro scarso nutrimento, ma benché quella gente fosse sparuta, livida e scoraggiata dalle carestie e dalle guerre che le si erano riversate sul capo, Terapione non riusciva a volgerla dalla parte del cielo. Adoravano Gesù, il figlio di Maria, vestito d'oro come un sole nascente, ma il loro cuore ostinato restava fedele alle divinità che si annidano negli alberi o emergono dal ribollìo delle acque; ogni sera posavano sotto il platano consacrato alle Ninfe una scodella di latte della sola capra superstite; i giovani s'insinuavano a mezzogiorno sotto i boschetti per spiare quelle donne dagli occhi verdi che si nutrono di timo e di miele. Pullulavano ovunque, figli di quella terra dura e secca dove ciò che altrove si dissipa in vapore assume subito sagoma e sostanza di realtà. Si ritrovava traccia dei loro passi nella terra argillosa delle fontane, e il candore dei loro corpi si confondeva di lontano con lo scintillìo delle rocce. Capitava perfino che una Ninfa mutilata sopravvivesse ancora nella trave rozzamente piallata che sosteneva un tetto, e la notte la si sentiva lamentarsi e cantare. Quasi ogni giorno qualche mandria stregata si perdeva nella montagna, e qualche mese più tardi non se ne trovava che un mucchietto di ossa. Le Maligne prendevano per mano i bambini e li portavano a ballare sull'orlo dei precipizi; i loro piedi leggeri non toccavano terra, ma l'abisso risucchiava i corpicini pesanti. Oppure un ragazzo lanciato sulla loro pista ridiscendeva trafelato, tremante di febbre per aver bevuto la morte con l'acqua di una sorgente. Dopo ogni disastro il monaco Terapione mostrava il pugno ai boschi dove le Maledette si nascondevano, ma i contadini continuavano ad amare quelle fresche fate seminvisibili, e le perdonavano per i loro misfatti come si perdona al sole che disintegra il cervello dei matti, alla luna che succhia il latte delle madri addormentate, e all'amore che fa tanto soffrire. Il monaco le temeva come un branco di lupe, e loro lo irritavano come un gregge di prostitute. Quelle lunatiche belle non gli davano pace: la notte ne sentiva sul viso l'alito caldo, simile a quello di una bestia male addomesticata timidamente si aggiri in una camera. si avventurava per la campagna munito del viatico per un malato, sentiva risuonare dietro di sé quel trotto capriccioso e sincopato da giovani capre; se gli capitava, nonostante i suoi sforzi, addormentarsi all' ora della preghiera, eccole lì in tutta innocenza a tirargli la barba. Non cercavano di sedurlo, perché lo trovavano brutto, buffo e vecchissimo nei suoi spessi abiti di saio scuro, e malgrado la loro bellezza non risvegliavano in lui alcun desiderio impuro, perché la loro nudità gli ripugnava come la carne pallida del bruco e il derma liscio delle serpi. Lo inducevano tuttavia in tentazione, perché finiva per dubitare della saggezza di Dio che ha modellato tante creature inutili e dannose, come se la creazione non fosse che un gioco malefico nel quale Egli trovasse compiacimento.

 Un mattino gli abitanti del villaggio trovarono il loro monaco tutto intento a segare il platano delle Ninfe, e doppiamente se ne addolorarono. Da un lato infatti temevano la vendetta delle fate, che se ne sarebbero andate portandosi via le sorgenti, e dall'altro quel platano dava ombra allo spiazzo dove usavano riunirsi per danzare. Ma non rimproverarono il santo uomo per timore di guastarsi con il Padre che è nei cieli, dispensatore di pioggia e di sole. Se ne stettero zitti, e i progetti del monaco Terapione contro le Ninfe furono incoraggiati da quel silenzio. Non usciva più senza due selci dissimulate nella piega della manica, e la sera, di nascosto, quando non vedeva ombra di contadino nella campagna deserta, dava fuoco a un vecchio ulivo il cui tronco cariato avesse l'aria di nascondere qualche dea, o a un giovane pino scaglioso la cui resina versasse un pianto d'oro. Una forma nuda si svincolava allora dal fogliame e correva a raggiungere le compagne, immobili in lontananza come cerbiatte spaventate, e il santo monaco si rallegrava di aver distrutto uno dei covi del Male. Piantava croci ovunque, e le giovani bestie divine indietreggiavano, fuggivano l'ombra di quella specie di sublime patibolo, lasciando intorno al villaggio santificato una zona sempre più vasta di silenzio e di solitudine. Ma la lotta proseguiva palmo a palmo sulle prime rampe della montagna, che si difendeva a forza di pruni aguzzi e smottamenti di pietre, e di dove cacciare gli dèi risulta più difficile. Alla fine, circondate dalla preghiera e dal fuoco, ridotte all' osso per l'assenza di offerte, prive d'amore da quando i giovani del villaggio avevano preso a evitarle, le Ninfe cercarono rifugio in una valle deserta dove certi pini tutti neri, piantati nel suolo argilloso, facevano pensare a grandi uccelli intenti a uncinare nei loro forti artigli la terra rossa e a volteggiare in cielo con le mille punte sottili delle loro piume d'aquila. Le sorgenti che sgorgavano laggiù sotto cumuli informi di pietre erano troppo fredde per attirare le lavandaie e i pastori. Sul fianco della collina, a mezza altezza, si apriva una grotta, e non vi si poteva entrare che attraverso uno squarcio largo appena quanto basta al passaggio di un corpo. Sempre le Ninfe vi si erano rifugiate nelle sere in cui il temporale disturbava i loro giochi, perché temevano il tuono, come tutte le bestie dei boschi, e ci dormivano anche nelle notti senza luna. Certi giovani pastori pretendevano di essersi insinuati in quella caverna a rischio della loro salvezza e del vigore della loro gioventù, e non la finivano più di parlare di quei corpi dolci semivisibili nella frescura delle tenebre, e di quelle chiome più intuite che palpate. Per il monaco Terapione, quella grotta dissimulata nel fianco della roccia era come un cancro radicato nel suo stesso petto, e in piedi all'ingresso della valle, con le braccia levate, pregava che il cielo l'aiutasse a distruggere quei pericolosi resti della razza degli dèi. Poco dopo la Pasqua, il monaco riunì una sera i più fedeli e i più rozzi fra i suoi seguaci; li armò di zappe e di lanterne; si munì di un crocefisso e li guidò attraverso il dedalo delle colline nelle molli tenebre piene di linfa, impaziente di mettere a profitto quella notte nera. Il monaco Terapione si fermò sulla soglia della grotta, e temendo che subissero qualche tentazione non permise ad alcun discepolo di penetrarvi. Si sentivano gorgogliare le sorgenti, in quell'ombra opaca.

Palpitava un debole rumore, dolce come la brezza nelle pinete; era il respiro delle Ninfe addormentate, che sognavano la giovinezza del mondo, il tempo in cui non esisteva ancora l'uomo, e dove la terra non dava vita che agli alberi, alle bestie e agli dèi. I contadini accesero un grande fuoco, ma si dovette rinunziare a bruciare le rocce; il monaco ordinò a tutti di impastare gesso, di trasportare pietre. Alle prime luci dell'alba essi avevano cominciato la costruzione di una piccola cappella appoggiata al fianco della collina, davanti all'imbocco della grotta maledetta. I muri non erano secchi, il tetto non era stato ancora appoggiato, la porta mancava, ma il monaco Terapione sapeva che le Ninfe non avrebbero tentato di scappare attraverso quel luogo santo da lui già consacrato e benedetto. Per maggior sicurezza, al fondo della cappella, proprio dove si apriva la bocca della roccia, aveva piantato un grande Cristo dipinto su una croce dalle quattro braccia eguali, e le Ninfe che capiscono soltanto i sorrisi indietreggiavano inorridite davanti a quell'immagine del Suppliziato. I primi raggi del sole si allungavano timidamente fino alla soglia della caverna: era l'ora in cui le infelici usavano uscire, per cogliere sulle foglie degli alberi vicini il loro primo pasto di rugiada; le prigioniere singhiozzavano, supplicavano il monaco di venir loro in soccorso, e nella loro innocenza gli promettevano di amarlo se avesse acconsentito ad autorizzarle a fuggire. I lavori proseguirono per l'intera giornata, e fino a sera si videro lacrime cader dalla pietra, si sentirono colpi di tosse e grida rauche simili a lamenti di bestie ferite. Il giorno dopo si posò il tetto e lo si ornò con un ciuffo di fiori; si sistemò la porta e si fece girare nella serratura una grossa chiave di ferro. Quella notte i contadini stanchi ridiscesero al villaggio, ma il monaco Terapione si coricò accanto alla cappella da lui costruita, e tutta la notte i lamenti delle sue prigioniere gli impedirono deliziosamente di dormire. Eppure era un uomo compassionevole: si inteneriva difatti su un verme che avesse schiacciato con un piede, o su uno stelo di fiore rotto dallo sfioramento della sua tonaca, ma era simile a un uomo capace di rallegrarsi per aver murato fra due mattoni un nido di giovani vipere. Il giorno dopo i contadini portarono del latte di calce, intonacarono l'interno e l'esterno della. cappella, che a questo punto prese l'aspetto di una bianca colomba rannicchiata sul seno della roccia. Due uomini del villaggio, meno paurosi degli altri, si avventurarono nella grotta per imbiancarne le pareti umide e porose, perché l'acqua delle sorgenti e il miele delle api cessassero di trasudare all'interno dell'antro e di sostenere la vita declinante delle donne-fata. Le Ninfe indebolite non avevano più la forza necessaria per manifestarsi agli umani; soltanto qua e là si indovinavano vagamente nella penombra una giovane bocca contratta, due macilente mani in supplica, e la pallida rosa di un seno. Oppure ogni tanto, passando sulle asperità della roccia le grosse dita imbiancate di calce, i contadini sentivano sfuggirsi dalle mani una chioma morbida e tremula come quel capelvenere che cresce negli anfratti umidi e abbandonati. Il corpo disfatto delle Ninfe si decomponeva in vapore, o era sul punto di sbriciolarsi come le ali di una farfalla morta;

 non smettevano di gemere, ma per cogliere quei deboli lamenti bisognava proprio tendere l'orecchio; non erano già più, ormai, che anime di Ninfe in pianto. Per tutta la notte seguente il monaco Terapione continuò a montare la sua guardia di preghiere sulla soglia della cappella, come un anacoreta nel deserto. Si rallegrava pensando che prima del novilunio i lamenti sarebbero cessati, e che le Ninfe morte di fame non sarebbero più state che un'impura memoria.
Pregava per affrettare il momento in cui la morte avrebbe liberato le sue prigioniere, perché suo malgrado cominciava a compiangerle, e di questa biasimevole debolezza si vergognava. Più nessuno saliva a trovarlo; il villaggio gli sembrava lontano, situato sull'altra riva del mondo; sul versante opposto della valle egli non scorgeva che terra rossa, e pini, e un sentiero seminascosto sotto gli aghi d'oro. Non sentiva che quei rantoli che andavano sempre decrescendo, e il suono sempre più rauco delle sue stesse preghiere. Al declinare di quel giorno egli vide sul sentiero una donna che gli veniva incontro. Camminava con la testa bassa, un po' curva; aveva un mantello e una sciarpa neri, ma una luce misteriosa trapelava da quella stoffa scura, come se lei avesse buttato la notte sul mattino. Benché fosse giovanissima aveva la gravità, la lentezza e la dignità di una donna molto vecchia, e la sua soavità era simile a quella del grappolo maturo e del fiore imbalsamato. Passando davanti alla cappella ella guardò con attenzione il monaco, che ne fu disturbato nelle sue orazioni. - Questo sentiero non porta da nessuna parte, donna - le disse. - Di dove vieni? -- Da Est, come il mattino - disse la giovane - E tu che cosa fai qui, vecchio monaco? -- Ho murato in questa grotta le Ninfe che infestavano ancora la contrada, disse il monaco, e contro l'apertura dell'antro ho costruito una cappella che loro non osano attraversare per fuggire perché sono nude, e a loro modo temono Dio. Aspetto che muoiano di fame e di freddo nella loro caverna, e allora la pace di Dio regnerà sui campi - - Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e ai greggi delle capre?- rispose la giovane. - Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan? E altri si fissarono su una montagna, dove divennero dèi dell'Olimpo. Non esaltare, come i pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno per la Sua opera. E nel tuo cuore ringrazia Dio perché ha creato Diana e Apollo -- La mia mente non sa innalzarsi tanto - disse umilmente il vecchio monaco. - Le Ninfe turbano i miei fedeli e mettono in pericolo la loro salvezza di cui io sono responsabile davanti a Dio, e per questo io le perseguiterò, se è necessario, fino all'Inferno. - E si terrà conto del tuo zelo, onesto monaco - disse sorridendo la giovane - Ma non vedi proprio un mezzo per conciliare la vita delle Ninfe e la salvezza dei tuoi fedeli? La sua voce era dolce come la musica di un flauto. Inquieto, il monaco abbassò la testa. La giovane donna gli posò la mano sulla spalla e gli disse con gravità: - Monaco, lasciami entrare in questa grotta. Io amo le grotte, e sento compassione per chi vi cerca rifugio.


È in una grotta che io ho messo al mondo il mio bambino, ed è in una grotta che l'ho affidato senza timore alla morte, perché subisse la seconda nascita della Resurrezione. L’anacoreta si fece da parte per lasciarla passare. Senza esitare ella si diresse verso l’entrata della caverna, dissimulata dietro l’altare. La grande croce ne sbarrava la soglia, ella la scostò delicatamente come un oggetto familiare, e s’insinuò nell’antro. Si sentivano nelle tenebre dei gemiti più acuti, dei pigolii e come un frusciare di ali. La giovane parlava alle Ninfe in una lingua sconosciuta che era forse quella degli uccelli e degli angeli.
Dopo un po' riapparve accanto al monaco, che non aveva smesso di pregare. - Guarda, monaco, disse, e ascolta. Innumerevoli gridolini stridenti le uscivano di sotto il mantello. Ne scostò i lembi, e il monaco Terapione vide che nelle pieghe del suo abito ella portava centinaia di giovani rondini. Come una donna in preghiera spalancò le braccia, dando così libertà agli uccelli. Poi, con voce chiara come il suono di un'arpa, ella disse: - Andate, mie creature. Le rondini liberate filarono via nel cielo della sera, descrivendo indecifrabili segni con il becco e con l'ala. Il vecchio e la giovane donna le seguirono per un po' con lo sguardo, poi la pellegrina disse al solitario: - Ritorneranno ogni anno, e tu le accoglierai nella mia chiesa. Addio, Terapione. E Maria se ne andò per il sentiero che non porta da nessuna parte, come una donna a cui importi ben poco che le strade finiscano, dal momento che sa come camminare nel cielo. Il monaco Terapione scese al villaggio, e il giorno dopo, quando risalì per celebrare la Messa, la grotta delle Ninfe era tappezzata di nidi di rondini. Ritornarono ogni anno; andavano e venivano per la chiesa, tutte intente a nutrire i loro piccoli e a consolidare le loro case d'argilla, e il monaco Teerapione si interrompeva sovente nelle sue preghiere per seguire, intenerito, i loro amori e i loro giochi, perché ciò che è proibito alle Ninfe è permesso alle rondini.

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