mercoledì 29 maggio 2013

Nuvole

Dove le nuvole si smarriscono
si ritrova la mia anima.
CBousquet

                                                       Sicilia 2011
Foto di CBousquet




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martedì 28 maggio 2013

Poesia di M.Gualtieri

Annunciare le stelle -
accogliere quel loro pane 
nella mente - farsi nutrire.
Dondolare la mente fino
alla pulizia totale.
Tendere all’insù, come dettano
le cime delle piante.

Che cosa sei tu? Movimento
del sangue che prende
aria e la circola per tutto il regno. La diffonde. Io respiro.
Sono nella vita in una forma
respirata, tiepida, morbida e rosa.
Respiro continuamente. E' il mio
punto d'innesco alla fiamma centrale.
È così semplice: respiro. Sono. Sono qui.
Una forza mi aziona il battito
gonfia e svuota il polmone.
Una forza mi tiene qui.

La terra è bellissima ora
avvolta in un cielo fiammeggiato.
Sento la sua antichità serena
quel suo essere cosmo.

Sento il cosmo che tiene
e non è stanco.
Solo l'uomo è stanco.
Solo lui dispera. Vuole e dispera.
Che cosa vuole? Che cosa vuole
l'inquieto grumo della creazione?
Valore vuole. Essere certo
d'esser qualcuno, d'esser qualcosa.
Da sé vuol farsi, sua propria mano
rimodellarsi. Creatura strana
anima zoppa - sempre.

Mariangela Gualtieri, Paesaggio con fratello rotto (Teatro Valdoca)

lunedì 20 maggio 2013

Poesia: memorie di una stupida malattia

Sospesa nel mio dolore
con le vele spiegate
dai venti
di una profonda tempesta
attendo che torni la quiete
che il cuore ritrovi la sua calma
e il ventre il suo antico respiro.
Sopravviverò a questi giorni
di corpo di tenebra
e ritroverò la mia spensieratezza
tra i libri di scuola
nello sguardo di un bambino
nel sorriso di una nonna
nei versi di una  poesia.
Oh corpo possa tu arrenderti
 all'evidenza
ed essere finalmente casa
anziché veliero.
Possa io con te  ritrovare
 la bussola
che conduce al porto
dell'eterno riposo.

CB


                                                                                                     foto di CB


giovedì 16 maggio 2013

Blog: Miti e leggende degli alberi

http://montebrianza.blogspot.it/2012/06/per-gentile-concessione-di-marco.html


Miti e leggende riportati da altri amanti degli alberi.



                                                                                                          Erice, 2011


                                                                      Foto di CBousquet

lunedì 13 maggio 2013

Leggenda: "Nostra signora delle rondini"


Da “Nostra signora delle rondini” di M.Yourcenar

C’era una volta un monaco di nome Terapione, era rude e sospettoso, ovunque vedeva la zampa del diavolo. Era stato capace di evangelizzare le mummie dell’Egitto e persino gli imperatori bizantini. Adesso era il turno della Grecia, infestata dai seguaci di Pan, il dio dei boschi e delle ninfe e di tutte le creature naturali, doveva farla cambiare a tutti i costi!
Non sopportava di vedere come gli alberi fossero ritenuti sacri, detestava le divinità d’argilla inserite in ogni incavo.
Con tutto il suo zelo provava la sua dura opera di conversione. Si era costruito una capanna con materiali benedetti ed era riuscito a condividere il cibo ed anche l’immagine di Gesù con i contadini, ma , nonostante le carestie e le guerre che stavano subendo, continuavano ad onorare alberi e dei e dee di tutti i tipi. Ogni sera posavano sotto il platano consacrato alle Ninfe una scodella di latte della unica capra superstite; i giovani s'insinuavano a mezzogiorno sotto i boschetti per spiare quelle donne dagli occhi verdi che si nutrono di timo e di miele.

Quasi ogni giorno qualche mandria stregata si perdeva nella montagna, e, correva voce, che qualche mese più tardi non se ne trovasse che un mucchietto di ossa. Erano accusate anche di prendere per mano i bambini e di portarli a ballare sull'orlo dei precipizi.
Il monaco Terapione era proprio adirato con quelle giovani, i contadini, invece, nonostante le voci e i disastri che sembrava combinassero, continuavano ad amare quelle fresche fate seminvisibili, e le perdonavano per i loro misfatti.

Il monaco le temeva come un branco di lupe e quelle rispondevono facendogli tremendi dispetti. Non gli davano pace, la notte ne sentiva sul viso l'alito caldo, di giorno, se si addormentava, gli tiravano la barba.

Non cercavano di sedurlo, perché lo trovavano bruttissimo, buffo e ultra vecchio, così serio nei suoi spessi abiti di saio scuro. D’altro canto, malgrado la loro bellezza e la loro nudità, non risvegliavano in lui alcun desiderio impuro.
Lo inducevano tuttavia in tentazione, perché finiva per dubitare della saggezza di Dio che ha modellato tante creature inutili e dannose, come le ninfe.
Un mattino gli abitanti del villaggio trovarono il loro monaco tutto intento a segare il platano delle Ninfe, e doppiamente se ne addolorarono. Da un lato infatti temevano la vendetta delle fate, che se ne sarebbero andate portandosi via le sorgenti, e dall'altro quel platano dava ombra allo spiazzo dove usavano riunirsi per danzare.
Ma non rimproverarono il santo uomo per timore di guastarsi la relazione con il Padre che è nei cieli, dispensatore di pioggia e di sole.
Se ne stettero zitti, e i progetti del monaco Terapione contro le Ninfe furono incoraggiati da quel silenzio.
Spesso la sera, di nascosto, quando non vedeva ombra di contadino nella campagna deserta, dava fuoco a un vecchio ulivo il cui tronco  avesse l'aria di nascondere qualche dea, o a un giovane pino la cui resina versasse un pianto d'oro. Una forma nuda si svincolava allora dal fogliame e correva a raggiungere le compagne, immobili in lontananza come cerbiatte spaventate, e il santo monaco si rallegrava di aver distrutto uno dei covi del Male. Piantava croci ovunque, e le giovani fuggivano lasciando intorno al villaggio santificato una zona sempre più vasta di silenzio e di solitudine.
 Ma la lotta proseguiva oltre, anche sulle insidiose montagne.
Alla fine, circondate dalla preghiera e dal fuoco, ridotte all' osso per l'assenza di offerte, prive d'amore da quando i giovani del villaggio avevano preso a evitarle, le Ninfe cercarono rifugio in una valle deserta dove certi pini tutti neri, piantati nel suolo argilloso, facevano pensare a grandi uccelli intenti a uncinare nei loro forti artigli la terra rossa e a volteggiare in cielo con le mille punte sottili delle loro piume d'aquila. Le sorgenti che sgorgavano laggiù sotto cumuli informi di pietre erano troppo fredde per attirare le lavandaie e i pastori. Sul fianco della collina, a mezza altezza, si apriva una grotta, e non vi si poteva entrare che attraverso uno squarcio largo appena quanto basta al passaggio di un corpo. Sempre le Ninfe vi si erano rifugiate nelle sere in cui il temporale disturbava i loro giochi, perché temevano il tuono, come tutte le bestie dei boschi, e ci dormivano anche nelle notti senza luna.
Certi giovani le avevano scovate e non la finivano più di parlare di quei corpi dolci semivisibili nella frescura delle tenebre, e di quelle chiome più intuite che palpate.
Per il monaco Terapione, quella grotta dissimulata nel fianco della roccia era come un cancro radicato nel suo stesso petto, e in piedi all'ingresso della valle, con le braccia levate, pregava che il cielo l'aiutasse a distruggere quei pericolosi resti della razza degli dèi.
Poco dopo la Pasqua, il monaco riunì una sera i più fedeli e i più rozzi fra i suoi seguaci; li armò di zappe e di lanterne; si munì di un crocefisso e li guidò attraverso il dedalo delle colline, impaziente di mettere a profitto quella notte nera.
Il monaco Terapione si fermò sulla soglia della grotta e,  temendo che subissero qualche tentazione, non permise ad alcun discepolo di penetrarvi.
 Si sentivano gorgogliare le sorgenti. Palpitava un debole rumore, dolce come la brezza nelle pinete; era il respiro delle Ninfe addormentate, che sognavano la giovinezza del mondo, il tempo in cui non esisteva ancora l'uomo, e dove la terra dava vita solo agli alberi, alle bestie e agli dèi.
I contadini accesero un grande fuoco, ma si dovette rinunziare a bruciare le rocce; il monaco ordinò a tutti di impastare gesso, di trasportare pietre. Alle prime luci dell'alba essi avevano cominciato la costruzione di una piccola cappella appoggiata al fianco della collina, davanti all'imbocco della grotta maledetta. I muri non erano secchi, il tetto non era stato ancora appoggiato, la porta mancava, ma il monaco Terapione sapeva che le Ninfe non avrebbero tentato di scappare attraverso quel luogo da lui già consacrato e benedetto.
 Per maggior sicurezza, al fondo della cappella, proprio dove si apriva la bocca della roccia, aveva piantato un grande Cristo dipinto su una croce, e le Ninfe, che capiscono soltanto i sorrisi, indietreggiavano inorridite davanti a quell'immagine del Suppliziato.
 I primi raggi del sole si allungavano timidamente fino alla soglia della caverna: era l'ora in cui le infelici usavano uscire, per cogliere sulle foglie degli alberi vicini il loro primo pasto di rugiada; le prigioniere singhiozzavano, supplicavano il monaco di venir loro in soccorso e nella loro innocenza gli promettevano di amarlo, se avesse acconsentito ad autorizzarle a fuggire. I lavori proseguirono per l'intera giornata e , fino a sera, si videro lacrime cader dalla pietra, si sentirono colpi di tosse e grida rauche simili a lamenti di bestie ferite.
Il giorno dopo si posò il tetto e lo si ornò con un ciuffo di fiori; si sistemò la porta e si fece girare nella serratura una grossa chiave di ferro.
 Quella notte i contadini stanchi ridiscesero al villaggio, ma il monaco Terapione si coricò accanto alla cappella da lui costruita, e tutta la notte i lamenti delle sue prigioniere gli impedirono deliziosamente di dormire.
Eppure era un uomo compassionevole: si inteneriva difatti su un verme che avesse schiacciato con un piede, ma adesso godeva del suo lavoro.

Il giorno dopo i contadini intonacarono l'interno e l'esterno della. cappella, che a questo punto prese l'aspetto di una bianca colomba rannicchiata sul seno della roccia. Due uomini del villaggio, meno paurosi degli altri, si avventurarono nella grotta per imbiancarne le pareti umide e porose, perché l'acqua delle sorgenti e il miele delle api cessassero di trasudare all'interno dell'antro e di sostenere la vita declinante delle donne-fata. Le Ninfe indebolite non avevano più la forza necessaria per manifestarsi agli umani.
Il loro corpo disfatto si decomponeva in vapore, o era sul punto di sbriciolarsi come le ali di una farfalla morta; non smettevano di gemere, ma per cogliere quei deboli lamenti bisognava proprio tendere l'orecchio; non erano già più, ormai, che anime di Ninfe in pianto.
 Per tutta la notte seguente il monaco Terapione continuò a montare la sua guardia di preghiere sulla soglia della cappella, come un anacoreta nel deserto. Si rallegrava pensando che prima o poi i lamenti sarebbero cessati, e che le Ninfe morte di fame non sarebbero più state che una memoria. Pregava per affrettare il momento in cui la morte avrebbe liberato le sue prigioniere, perché suo malgrado cominciava a compiangerle.
Al declinare di quel giorno egli vide sul sentiero una donna che gli veniva incontro. Camminava con la testa bassa, un po' curva; aveva un mantello e una sciarpa neri, ma una luce misteriosa trapelava da quella stoffa scura, come se lei avesse buttato la notte sul mattino. Benché fosse giovanissima aveva la gravità, la lentezza e la dignità di una donna molto vecchia, e la sua soavità era simile a quella del grappolo maturo e del fiore imbalsamato. Passando davanti alla cappella ella guardò con attenzione il monaco, che ne fu disturbato nelle sue orazioni.
 - Questo sentiero non porta da nessuna parte, donna - le disse. - Di dove vieni? –
Da Est, come il mattino - disse la giovane - E tu che cosa fai qui, vecchio monaco? -- Ho murato in questa grotta le Ninfe che infestavano ancora la contrada, disse il monaco, e contro l'apertura dell'antro ho costruito una cappella che loro non osano attraversare per fuggire perché sono nude, e a loro modo temono Dio. Aspetto che muoiano di fame e di freddo nella loro caverna, e allora la pace di Dio regnerà sui campi –
 - Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e ai greggi delle capre?- rispose la giovane.
- Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan?
E altri si fissarono su una montagna, dove divennero dèi dell'Olimpo. Non esaltare, come i pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno per la Sua opera. E nel tuo cuore ringrazia Dio perché ha creato Diana e Apollo –
- La mia mente non sa innalzarsi tanto - disse umilmente il vecchio monaco. - Le Ninfe turbano i miei fedeli e mettono in pericolo la loro salvezza di cui io sono responsabile davanti a Dio, e per questo io le perseguiterò, se è necessario, fino all'Inferno.
- E si terrà conto del tuo zelo, onesto monaco - disse sorridendo la giovane - Ma non vedi proprio un mezzo per conciliare la vita delle Ninfe e la salvezza dei tuoi fedeli?
 La sua voce era dolce come la musica di un flauto.
 Inquieto, il monaco abbassò la testa. La giovane donna gli posò la mano sulla spalla e gli disse con gravità:
- Monaco, lasciami entrare in questa grotta. Io amo le grotte, e sento compassione per chi vi cerca rifugio.
È in una grotta che io ho messo al mondo il mio bambino, ed è in una grotta che l'ho affidato senza timore alla morte, perché subisse la seconda nascita della Resurrezione.
L’anacoreta si fece da parte per lasciarla passare.
Senza esitare ella si diresse verso l’entrata della caverna, nascosta dietro l’altare. La grande croce ne sbarrava la soglia, ella la scostò delicatamente come un oggetto familiare, e s’insinuò nell’antro. Si sentivano nelle tenebre dei gemiti più acuti, dei pigolii e come un frusciare di ali.
 La giovane parlava alle Ninfe in una lingua sconosciuta che era forse quella degli uccelli e degli angeli. Dopo un po' riapparve accanto al monaco, che non aveva smesso di pregare.
 - Guarda, monaco, disse, e ascolta.
Innumerevoli gridolini stridenti le uscivano di sotto il mantello. Ne scostò i lembi, e il monaco Terapione vide che nelle pieghe del suo abito ella portava centinaia di giovani rondini. Come una donna in preghiera spalancò le braccia, dando così libertà agli uccelli. Poi, con voce chiara come il suono di un'arpa, ella disse:
- Andate, mie creature.
 Le rondini liberate filarono via nel cielo della sera, descrivendo indecifrabili segni con il becco e con l'ala. Il vecchio e la giovane donna le seguirono per un po' con lo sguardo, poi la pellegrina disse al solitario:
 Ritorneranno ogni anno, e tu le accoglierai nella mia chiesa. Addio, Terapione.
E Maria se ne andò per il sentiero che non porta da nessuna parte, come una donna a cui importi ben poco che le strade finiscano, dal momento che sa come camminare nel cielo.
 Il monaco Terapione scese al villaggio, e il giorno dopo, quando risalì per celebrare la Messa, la grotta delle Ninfe era tappezzata di nidi di rondini. Ritornarono ogni anno; andavano e venivano per la chiesa, tutte intente a nutrire i loro piccoli e a consolidare le loro case d'argilla, e il monaco Terapione si interrompeva sovente nelle sue preghiere per seguire, intenerito, i loro amori e i loro giochi, perché ciò che è proibito alle Ninfe è permesso alle rondini.


Revisione a cura di Claudia Bousquet


                                                                                    foto di CBousquet

venerdì 10 maggio 2013

Atlante degli alberi

http://www.agraria.org/coltivazioniforestali/larice.htm


                                                                                                  Erice, Sicilia 2011

                                                                                       foto di CBousquet

Leggenda: l’origine del larice


Come nacque il LARICE: 


C’era una volta
 un torrente d’argento in cui abitavano le aguane, creature acquatiche.
 Marugiana, dal sangue misto, figlia di un’aguana e del signore del castello, era la loro regina e conosceva le tragedie e le sventure che colpivano gli uomini.
Un giorno un principe passando accanto al torrente la vide e s’innamorò di Marugiana, e lei di lui.
Il giovane la chiese in sposa e Marugiana accettò ma, come regalo di nozze, desiderò che almeno per un attimo il dolore e il male svanissero dal mondo.
Era questo un desiderio impossibile da esaudire, se non nel mondo di Utopia.
Si consultarono tutti i saggi del posto e solo una vecchietta, creatura dell’acqua, un’ aguana per l’appunto, pensò ad un momento in cui tutto sembrava fermarsi in una pace irreale, un momento che era solito accadere ogni secolo, e fortuna voleva che, proprio durante quell’anno, il giorno di San Giovanni Battista a mezzogiorno in punto si sarebbe ripetuto.
Così i due innamorati decisero di sposarsi durante quel magico giorno e le nozze poterono celebrarsi in un’atmosfera incantata.
Due nani, come regalo, decisero di legare tutti i fiori in un mazzo gigantesco, grande come un albero, che poi piantarono in una radura della montagna, dandogli il nome di Larice, segno di protezione del focolare domestico.
Certo che i nani avevano avuto un bel pensiero, ma non avevano riflettuto sul fatto che in montagna, durante gli inverni rigidi, il Larice sarebbe morto.
Pensarono e ripensarono alle possibili soluzioni, ma Marugiana semplicemente gettò sulla pianta il suo velo di nozze...la pianta magicamente cominciò a germogliare e poi a fiorire, con coni rossi e profumati.
Tutti i presenti rimasero stupiti per la bellezza della giovane pianta e decisero che da quel momento sarebbe diventata il simbolo del matrimonio. Infatti quest’albero, come il matrimonio, è verde e fiorito in primavera, poi diventa rosso e oro come la maturità, ma d’inverno, se una nuova Marugiana non lo ricopre con il velo della speranza e dell’amore, diventa secco e spoglio.

Tratto da: “Florario” di A.Cattabiani ed. Mondadori

mercoledì 8 maggio 2013

Fiaba: Liubel di M.Bolognese


L     I     U     B     E     L
...una fiaba di Nonna Orsa... di Mario Bolognese

...Quando Lìubel, dopo tante avventure, finalmente trovò sua madre sdraiata sull'erba, vicino a una sorgente d'acqua, i suoi occhi  luccicarono  di gioia e  di tristezza. Gioia per averla ritrovata e tristezza  perchè dalla  fonte sgorgava solo un filino d'acqua e  perchè i capelli di quella splendida donna, come lo stesso prato, avevano un colore ingiallito e stanco... Ma Nonna Orsa, intuendo la situazione, la svegliò e la fece ridere...Come era buffa  mentre danzando con Lìubel  agitava le braccia e  i suoi lunghi peli... Così tutte si abbracciarono... E la madre ora sorrideva  grata per quei doni...  E anche il prato si era come risvegliato...Ma se volete conoscere tutta la storia fin dall'inizio del suo girotondo, Nonna Orsa volentieri ve la racconta...

                                                       ... Lìubel, la bimba , piume d'acqua negli occhi e fuoco verde nel cuore,  era giunta  nella  Terra di Mezzo, un regno misterioso sospeso tra i mondi. E in questo luogo amava incontrarsi  con Luna Nascente e con Nonna Orsa.
Lìubel, quando giocava con le amiche, si metteva tra i neri capelli un fermaglio d'argento, a forma di falce, e così  con il  suo corpo di seta e alabastro si divertiva a fluttuare nell'aria  nascondendosi per la gioia di farsi ogni volta trovare... E come una farfalla tra i fiori sorridendo, e a tratti ridendo, emanava soffi di vita e si lasciava permeare dal germinare incessante che la circondava. Luna Nascente portava infatti magìa e Nonna Orsa allegria...
Lìubel amava giocare a nascondino  con mille e mille creature e forme di vita, alcune delle quali vedeva solo lei, perchè anche  sulla sua pelle fiorivano sguardi.
La Terra di Mezzo era come un grande grande nido che ospitava spiriti di bambine e bambini come fossero uccellini e uccelline. Qui si fermavano, magari dopo avere a lungo viaggiato, perchè dovevano riparare, correggere, trasformare o abbellire la loro fiaba.  Magari avevano un po' dimenticato la musica di certe parole, la danza di alcune immagini e che un uovo, una volta,  le aveva contenute... Anche Lìubel era giunta nella Terra di Mezzo per questo sacro gioco di ridonare bellezza al proprio racconto e lo faceva fondendo  il suo respiro con il nutriente e profumato silenzio  della  natura che la circondava.
Un'antica storia diceva in fatti che ognuno e ognuna, apparendo alla finestrella del mondo, riceveva in dono un semino-fiaba che doveva accudire e far germogliare                                                                                                      E ben presto Lìubel, ricca di mille e mille parole diverse, raccolte spigolando anche nel sottobosco,  aiutava chiunque aveva difficoltà a  ri-tessere il proprio racconto. E Nonna Orsa entrava in gioco  imitando le voci della natura e i movimenti degli animali. Così capivano che le parole erano creature viventi...
Sapevano tutte e tutti gli ospiti della Terra di Mezzo che il viaggio  doveva proseguire verso un altro piccolo caldo nido pronto per loro, da qualche parte del grande cosmo. Ma prima dovevano lavorare sul loro giardino di parole e solo alla fine, con la loro bella fiaba messa a nuovo nel cestino da viaggio, la soglia si apriva... e  il viaggio poteva  proseguire...
E aveva il suo bel da fare Lìubel nel suo lavoro di giardiniera delle parole, anche perchè c'erano differenze tra gli spiriti femmine e quelli dei maschi.
C'era chi giocava con le parole danzando con loro e chi invece  le collezionava per farne ghirlande . Chi ne ascoltava il battito e il respiro e chi le voleva sottomesse...
Leggero era il segreto di Lìubel  per aiutare a  inanellare parole nella grazia di un  racconto: per trovare la  perla  solo consigliava di lasciar  schiudere il cuore con la grazia delle valve di una conchiglia...E mitemente aspettava che ognuno ed ognuna ritrovasse, con lo stupore, il suo passo di danza nel giardino dei tanti e diversi racconti...
A nche lei, lo sapeva bene,  era solo di passaggio ma da molto tempo la sua fiaba di Donna- Pelle -Bambina era pronta e profumata, nel suo bel cestino di erbe intrecciate.
Lìubel, principessa di tanti e diversi sorrisi, se  ogni tanto piangeva per la nostalgia  le sue lacrime, pur nel dolore,  erano rugiada sulle zolle di terra... Sapeva che  doveva andare da sua madre che l'aspettava da tempo... Lo desiderava tantissimo, anche per  per ringraziarla portandole i suoi  regali, ma...Ma colma di generosità, come un pètalo che cerca altri pètali, non voleva partire da sola...
Tredici lune prima infatti sua madre le aveva mandato con uno stormo di civette e colibrì  i suoi doni:  scialli con i colori dell'arcobaleno  e altri due, uno bianco e uno nero. Ogni colore dilatava un gesto, suggeriva un rito,  apriva visioni,    rendeva ritmico il passo e rotondo il pensiero.
E Lìubel indossava , ringraziando il  Grande Mistero, quello bianco all'alba  e quello nero a ogni tramonto.
Attorno a sé aveva già raccolto un piccolo girotondo di spiriti bambine pronte come  lei al passaggio ma il suo istinto le diceva di aspettare  ancora un poco, perchè   forse c'era un'altra creatura che voleva partire.
Infatti durante una mattina splendente di pioggia e di sole Lìubel uscì dalla sua capanna per assaporare la magìa di quell'incanto. “ Che meraviglia!”, si disse,  anche perchè non aveva mai assistito a un evento di quel genere.  In quella zona dove aveva dimora, a oriente della grande foresta, in quel momento la luce aveva riflessi ìndaco e le gocce di pioggia  aprivano un arcobaleno di lùcciole...
Fu allora che vide Pùlcinet, uno gnomino zoppo con l'aria smarrita.  L'esserino si era perso e infatti  stava molto da solo  perchè  gli spiriti bambini degli gnomi non lo invitavano a giocare con loro .  Ritenevano  infatti che a causa della sua menomazione non fosse bravo ad arrampicarsi sugli alberi e a saltare di ramo in  ramo con gli scoiattoli. Era questo infatti il loro gioco preferito... E non solo non lo invitavano ma lo prendevano anche in giro.
Lui, Pùlcinet, si rattristava ma era sempre gentile con loro. E così passava il tempo a girovagare nella grande foresta  sempre con la sua piccola fiaba curiosa di incontri...
Così Lìubel e le  amiche invitarono Pùlcinet a partire con loro.
“ Ma io non sono pronto”, arrossì lo gnomino danzando su se stesso per l'emozione.
La bimba con la pelle di alabastro sorrise e aprì il suo cestino da viaggio. Era vuoto...come
quello delle altre ... Ma fu  allora che un vento leggero  avvolse Lìubel donandole  fuoco di stelle,  pèttini d'acqua e capriole di terra. La fiaba era lei...
Ed era Lìubel che ,  danzando con  lo scialle della madre,  aveva   risvegliato e invitato quel vento che ora la rivestiva di seta  e del canto di ogni ninnananna...
Lìubel sorrise e in quell'abbraccio anche gli spiriti bambine si sentirono fiaba. E lo stesso Pùlcinet non era più preoccupato  di aver sbagliato racconto. Anche il suo cestino vuoto era però pieno di mille invisibili semini pronti dolcemente  a germogliare, sognando magari un padre...
Fluttuarono tutte e tutti oltre la soglia, anche Nonna Orsa, con Pùlcinet aggrappato a lei .
Lìubel  ora sapeva, lo sentiva nel cuore, che lontano la splendida sua madre, forse sola, forse un po' triste, forse con una gran voglia di ridere , la  stava aspettando...