giovedì 29 novembre 2012

martedì 20 marzo 2012

Articolo: "la poesia una pratica di vita"


Mi piace pensare  che ad ogni poesia nata, con essa, sorga nel cielo una nuova stella che, illuminando il nostro cammino sulla terra, semina speranza.
Come se le parole- angelo si facessero tunnel collegando i due piani opposti, quello terrestre  e  quello celeste;  come se le parole-albero  guidate dall’anima avessero la stessa funzione che il  Tao  attribuisce alle creature umane, raffinato strumento d’unione tra  il cielo e la terra. 


A cura di Claudia Bousquet

http://www.ilcambiamento.it/culture_cambiamento/ecologia_parola_poesia_pratica_vita.html

Articolo:"camminare una pratica insostituibile"

A cura di Claudia Bousquet

http://www.ilcambiamento.it/culture_cambiamento/camminare_boschi_pratica_insostituibile.html

venerdì 24 febbraio 2012

Foto: "Scatti urbani"

                                                                  Romagna, febbraio 2012

"Cadono fitti i fiocchi,  lasciando la città di bianco vestita..."

http://youtu.be/QqlO_TeyKF8"




                                                                                                             

                                                                    ecoinarte@yahoo.it

mercoledì 8 febbraio 2012

"Le isole fortunate"

Poesia di F.Pessoa

"Quale voce viene sul suono delle onde
che non sia la voce del mare?
È la voce di qualcuno che ci parla,
ma che se ascoltiamo tace,
proprio per esserci messi ad ascoltare.

E solo se mezzo addormentati,
udiamo senza sapere che udiamo,
essa ci parla della speranza
verso la quale, come un bambino
che dorme, dormendo sorridiamo.

Sono isole fortunate,
sono terre che non hanno luogo,
dove il Re vive aspettando.
Ma, se vi andiamo destando
tace la voce e solo c'è il mare."


                                                                foto di CB

Poesia su un fiocco di neve vagabondo di E.Dickinson

Poesia di  Emily Dickinson

                    foto di CBousquet

‎"Il cielo è pesante- le nubi rade.
 Un fiocco di neve vagabondo
attraverso un fienile o lungo un solco 
non sa se andare -
Un vento debole si lamenta tutto il giorno
 per il modo in cui l'hanno trattato.
La natura, come noi, a volte si lascia cogliere 
senza diadema."          
                                           

Arte e Natura


Silvano Braido e le sue isole incantate



http://www.youtube.com/watch?v=cSOPidVuViM&feature=related


Pete Revonkorpi



http://www.youtube.com/watch?v=9oOhGsNY_NY&feature=related


DuyHuynh



http://www.youtube.com/watch?v=4442aZAmejU&feature=related

domenica 5 febbraio 2012

Progetto eco-artistico "Raccolgo e trasformo"

         “Raccolgo e trasformo” è un laboratorio artistico rivolto non solo ai bambini, ma anche a tutti gli adulti che abbiano semplicemente voglia di creare divertendosi.
Durante due incontri laboratoriali, di durata di due ore ciascuno, l'esperta stimolerà il rispetto per l’ambiente attraverso la creatività e il gioco.
Voi già sapete che la natura ed il sottobosco sono una gran fonte di ricchezza e d’ispirazione artistica? A essa si sono sempre ispirati numerosi scrittori e poeti, ma anche artisti e pittori, così anche i bambini godranno degli stimoli degli spazi aperti per creare, riciclare ed imparare le basi della lavorazione della carta pesta.
Infatti bastano un po’ di curiosità e di creatività per dar vita a creazioni  del tutto ecologiche!
Attraverso proposte di vario tipo si vuole stimolare un rapporto empatico con la natura, che una volta animata, assolve il ruolo di dolce amica immaginaria, divenendo quindi per il bambino degna di cure e di rispetto. 
Giochi di gruppo ed in coppia permetteranno ai giovani partecipanti di conoscersi e di sperimentare la fiducia e l’amicizia al di là della propria cultura e provenienza geografica.
Questo laboratorio quindi mira sia a scoprire il profondo legame che esiste tra individuo e natura, sia a spronare una collaborazione di gruppo pacifica e costruttiva tra bambini di diversa età e cultura.


PER RICEVERE L'INTERO PROGETTO MANDARE UNA MAIL SU ECOINARTE@YAHOO.IT



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"Inverno pittore"



Poesia di H.D. Thoreau

"È straordinario pensare a quale varietà di colori
ben distinti possa offrirci l'inverno, e ciò usando
di tante poche tinte, se così vogliamo chiamarle.
La limpidezza e la purezza particolarissima dei
colori rappresentano probabilmente il fascino
maggiore di una passeggiata invernale.
C'è il rosso del cielo al tramonto, e della neve
di sera, e dei lembi di arcobaleno durante il
giorno, e delle nuvole basse.
C'è l'azzurro del cielo, e dei riflessi dell'acqua,
e del ghiaccio e delle ombre sulla neve.
C'è il giallo del sole e del cielo crepuscolare al
mattino e alla sera e del carice (o color paglierino
che, diviene brillante se, a sera, viene illuminato
sull'orlo del ghiaccio) e tutti e tre nei cristalli di brina.
E poi i colori secondari, ecco il porpora della neve,
in mucchi e sulle cime delle colline, sui monti,
delle nuvole serotine.
Il verde dei sempreverdi, del cielo e del ghiaccio
e delle acque quando scende la sera.
L'arancione del cielo di sera.
Il bianco della neve e delle nuvole e il nero delle
nuvole stesse. delle acque agitate, dell'acqua che
s'infiltra nel sottile strato di neve sul ghiaccio.
Il ruggine, il marrone e il grigio dei boschi di
alberi decidui.
Il bruno fulvo della terra nuda"
di H.D.Thoureau

lunedì 30 gennaio 2012

Poesia : "Vento" di H.V.Hofmannsthal

Poesia di H.V.Hofmannsthal

"Il vento errante per le vie
era colmo di dolce suono
il piovigginio del crepuscolo
una rugiada di desideri.
L'acqua che frusciando scorreva
inebbriava confondendo le voci 
 dei sogni che più e più pallidi
nella nebbia sospesi si smarrivano.
Il vento che sfiorava i salici,
il vento che sull'acqua vagava,
esaltava le pene nostalgiche,
che sono nel crepuscolo.
 La via del vento dell'imbrunire
 non conduceva a meta alcuna,
ma andava bene per camminare,
nella pioggia che stillante cadeva."



mercoledì 18 gennaio 2012

martedì 17 gennaio 2012

Articolo: Sulla salute non solo infantile


    Il potere delle parole e delle immagini                   

                                                                                              foto di C.Bousquet
Sono un'insegnante di lingue che sviluppa anche progetti basati sul racconto, la poesia e le immagini (foto, video, disegni). Da alcune esperienze fatte con bambini ed adolescenti, mi sono accorta di quanto sia importante selezionare sempre in maniera adeguata il linguaggio (vedasi articolo: “Ecologia della parola: la poesia come pratica di vita”) ed altresì, le immagini da offrire.
A tal proposito, molte trasmissioni televisive non rappresentano un buon esempio da seguire. Troppo spesso infatti, esse ci propongono modelli negativi di relazioni umane, non più basate sul rispetto reciproco e sulla gentilezza, ma sull'arrivismo e sulla prevaricazione del più forte. Generalmente quindi, i media non offrono una sana educazione (non solo visiva) ai nostri figli e non collaborano alla realizzazione di un'umanità migliore.
Purtroppo proprio quella "scatola animata" esercita una grande influenza "culturale", sui più giovani, ed in special modo sui più piccoli, i quali, nudi davanti allo schermo (privi cioè di protezioni mentali ed emotive), s’impregnano di quel “sapere”.
Frequentemente a scuola, mentre ascolto gli scambi verbali dei miei alunni di 14-18 anni (spesso volgari anche in presenza degli insegnanti) mi sembra di rivivere in classe la trasmissione di “uomini e donne”. Infatti , anzicché esprimere con calma i propri pareri, troppo spesso discutono in forma accesa, infuocandosi e usando, con poca consapevolezza, espressioni sin troppo intense e colorite. Questi tipi di scambi non denotano alcun interesse e rispetto per se stessi e per gli altri; si tratta di conversazioni prive di vero ascolto, in cui la mente e la parola non sono più a stretto contatto con il cuore, dando così vita a una forma di squilibrio interiore.
Gli spot televisivi, i cartoni animati, molti film di fatto invadono il nostro mondo immaginario, spesso influenzandolo a tal punto da causare persino dipendenza.
Ciò significa che quel rapido susseguirsi di immagini e parole, può sostituirsi alle nostre immagini interiori, a quelle immagini cioè che tessono il filo sacro dell’esistenza. Questo magico filo, se non tutelato, spesso rischia di spezzarsi, ostacolando la comprensione e la scoperta del vero significato della nostra stessa vita.

E noi quanto di tutto questo "materiale invasivo " selezioniamo giornalmente per i nostri figli, nipoti e ragazzi?
Perchè misurare e usare bene le parole e perchè non sovraccaricare i bambini di immagini esterne eccessive lo spiega bene la scrittrice A.Sepilli, nel suo libro “Poesia e magia”(p.52):

"Esprimere parole equivale a suscitare immagini nella
fantasia anche senza corrispondenza con una realtà
esteriore...
Le parole come il sogno o la visione, quando
siano accompagnate da forte carica emozionale , possono
apparire forme intensificate di realtà, o di una"soprarrealtà",
misteriosa, esistente in un qualche modo o in qualche
dove”.

Se le parole possono avere questo potere e, insieme alle immagini, possono creare una “realtà altra” nel individuo, chi controlla questa realtà?
Che forme prenderanno certe fantasie? Che esseri simbolici diverranno certi personaggi nella mente del bambino?
Noi questo non possiamo saperlo, allora ecco perchè tutelare i minori, selezionando accuratamente il materiale visivo e sonoro da offrire loro.
Proponendolo come se fosse un pasto, considerando che proprio di questo si tratta: di offrire ai più piccoli nutrimento per l' immaginazione e per la loro esistenza; affinchè semplicemente possano vivere più sereni e riescano ad avere delle radici solide su cui poggiare il loro divenire.

"Ogni parola che proferiamo va scelta con cura, perchè il prossimo la udrà e ne sarà influenzato, nel bene o nel male"
Buddha[1]

Ed ancora Emily Dickinson scriveva:

"Una parola è morta
quando è pronunciata,
dicono alcuni.
Invece io dico
che inizia a vivere
proprio in quel momento"[2].

Claudia    Bousquet 

Forlì, 2013

contatti: ecoinarte@yahoo.it



[1] Dal testo “ I dieci comandamenti della saggezza” di Hal Urban (pag 62)
[2] Tratto da : “L’incanto di un prato fiorito”                 

Rispetto

Musica per riflettere sul rispetto...

http://www.youtube.com/watch?v=xTf14maKtT8&feature=share

Terra

Campagna di sensibilizzazione per la tutela della terra 

"Striscia verso la terra tua genitrice!

Possa ella salvarti dal nulla..."

Veda indiani


Ama e rispetta la tua terra madre:
 evita l'abbandono dei rifiuti nei boschi, 
nelle aiuole, nelle spiagge e nel mare, 
un giorno anche i tuoi figli te ne saranno grati...


Riciclando salvi gli alberi

Campagna di sensibilizzazione in favore del riciclo della carta

Vicino alle montagne , spianato sotto i passi
il campo risuona.
Ti dice: la terra è un tamburo, pensaci.
Noi per seguirne il ritmo
dobbiamo fare attenzione ai nostri passi.”

                                                                             JOSEPH BRUCHAC



                    Evitando lo spreco tuteli le foreste...



Foto a cura di Claudia Bousquet          
                     
                             http://www.youtube.com/watch?v=rfOrplg80MM&feature=share

lunedì 16 gennaio 2012

Tutela la bellezza


Campagna di sensibilizzazione per la tutela della bellezza





"Nel mistero dell'infinito



oscilla un pianeta



e, sul pianeta, un giardino



e, nel giardino, un letto di fiori;



e, nel letto di fiori, una viola,



e, per tutto il giorno, sulla viola,



tra il pianeta e l'infinito l'ala di una farfalla."



 di Cecìlia Meireles 




Campagna di sensibilizzazione
 per la tutela della bellezza a cura di EcoInarte


Foto di Claudia Bousquet

http://www.youtube.com/watch?v=VOnmsa_zmmE&feature=related

Alberi

Campagna di sensibilizzazione
 per la tutela degli alberi e delle foreste

a cura di EcoInArte 


"Taci oh mio cuore
gli alberi stanno pregando!
Dissi all'albero: 'Raccontami di Dio'
 e quello fiorì..."

Canto popolare tedesco


Tagliando alberi




Ecoinarte 

Campagna di 
sensibilizzazione 
per  la tutela degli alberi

GLI ALBERI SONO

 UN BENE COMUNE

NON TAGLIARNE

TROPPI, ANCHE SE

 SI TROVANO NELLA

TUA PROPRIETÁ






ALBERO

IO sono te, tu sei me
quando mi tagli pensaci,
ti sto offrendo la mia vita.
Pensami con rispetto,
anche se ti servo e mi usi come una “cosa”,
sono un Albero
pieno di vita;
pensaci, ringrazia
e solo allora taglia.
In tal modo desidererò ancora popolare la tua terra...


Foto e testo a cura di Claudia Bousquet




giovedì 12 gennaio 2012

"Il pianeta verde" film

http://www.youtube.com/watch?v=YCcHDBhTZBk

La poesia di Marcia Theophilo

http://www.theophilo-amazonia-e-poesia.info/Poesie.html

Musica per il ritorno delle rondini...

http://www.youtube.com/watch?v=xTf14maKtT8&feature=share

"Nostra Signora delle rondini"



Testo letterario di Marguerite Yourcenar

Il monaco Terapione era stato in gioventù il più fedele discepolo del grande Atanasio; era rude, austero, dolce soltanto verso le creature nelle quali non sospettasse la presenza di diavoli. In Egitto aveva risuscitato ed evangelizzato delle mummie; a Bisanzio aveva confessato imperatori; era venuto in Grecia sulla fede di un sogno, con l'intenzione di esorcizzare questa terra ancora soggetta ai sortilegi di Pan. S'infiammava di odio vedendo certi alberi sacri ai quali i contadini colpiti dalla febbre appendevano stracci incaricati di tremare per loro al minimo alito serale, i falli eretti nei campi per obbligare il suolo a dare il raccolto e gli dèi d'argilla annidati negli incavi dei muri e nella conca delle sorgenti. Si era costruito con le sue proprie mani un'esigua capanna sugli argini del Cefiso, avendo cura di usare soltanto materiali benedetti. I contadini dividevano con lui il loro scarso nutrimento, ma benché quella gente fosse sparuta, livida e scoraggiata dalle carestie e dalle guerre che le si erano riversate sul capo, Terapione non riusciva a volgerla dalla parte del cielo. Adoravano Gesù, il figlio di Maria, vestito d'oro come un sole nascente, ma il loro cuore ostinato restava fedele alle divinità che si annidano negli alberi o emergono dal ribollìo delle acque; ogni sera posavano sotto il platano consacrato alle Ninfe una scodella di latte della sola capra supestite; i giovani s'insinuavano a mezzogiorno sotto i boschetti per spiare quelle donne dagli occhi verrdi che si nutrono di timo e di miele. Pullulavano ovunque, figli di quella terra dura e secca dove ciò che altrove si dissipa in vapore assume subito sagoma e sostanza di realtà. Si ritrovava traccia dei loro passi nella terra argillosa delle fontane, e il candore dei loro corpi si confondeva di lontano con lo scintillìo delle rocce. Capitava perfino che una Ninfa mutilata sopravvivesse ancora nella trave rozzamente piallata che sosteneva un tetto, e la notte la si sentiva lamentarsi e cantare. Quasi ogni giorno qualche mandria stregata si perdeva nella montagna, e qualche mese più tardi non se ne trovava che un mucchietto di ossa. Le Maligne prendevano per mano i bambini e li portavano a ballare sull'orlo dei precipizi; i loro piedi leggeri non toccavano terra, ma l'abisso risucchiava i corpicini pesanti. Oppure un ragazzo lanciato sulla loro pista ridiscendeva trafelato, tremante di febbbre per aver bevuto la morte con l'acqua di una sorgente. Dopo ogni disastro il monaco Terapione mostrava il pugno ai boschi dove le Maledette si nascondevano, ma i contadini continuavano ad amare quelle fresche fate seminvisibili, e le perrdonavano per i loro misfatti come si perdona al sole che disintegra il cervello dei matti, alla luna che succhia il latte delle madri addormentate, e all'amore che fa tanto soffrire.
Il monaco le temeva come un branco di lupe, e loro lo irritavano come un gregge di prostitute. Quelle lunatiche belle non gli davano pace: la notte ne sentiva sul viso l'alito caldo, simile a quello di una bestia male addomesticata timidamente si aggiri in una camera.

Si avventurava per la campagna munito del viatico per un malato, sentiva risuonare dietro di sé quel trotto capriccioso e sincopato da giovani capre; se gli capitava, nonostante i suoi sforzi, addormentarsi all' ora della preghiera, eccole lì in tutta innoocenza a tirargli la barba. Non cercavano di sedurrlo, perché lo trovavano bmtto, buffo e vecchissiimo nei suoi spessi abiti di saio scuro, e malgrado la loro bellezza non risvegliavano in lui alcun desiderio impuro, perché la loro nudità gli ripugnaava come la carne pallida del bruco e il derma liiscio delle serpi. Lo inducevano tuttavia in tentazione, perché finiva per dubitare della saggezza di Dio che ha modellato tante creature inutili e dannose, come se la creazione non fosse che un gioco malefico nel quale Egli trovasse compiacimento. Un mattino gli abitanti del villaggio trovarono il loro monaco tutto intento a segare il platano delle Ninfe, e doppiamente se ne addolorarono. Da un lato infatti temevano la vendetta delle fate, che se ne sarebbero andate portandosi via le sorgenti, e dall'altro quel platano dava ombra allo spiazzo dove usavano riunirsi per danzare. Ma non rimproverarono il santo uomo per timore di guastarsi con il Padre che è nei cieli, dispensatore di pioggia e di sole. Se ne stettero zitti, e i progetti del monaco Terapione contro le Ninfe furono incoraggiati da quel silenzio.
Non usciva più senza due selci dissimulate nella piega della manica, e la sera, di nascosto, quando non vedeva ombra di contadino nella campagna deserta, dava fuoco a un vecchio ulivo il cui tronco cariato avesse l'aria di nascondere qualche dea, o a un giovane pino scaglioso la cui resina versasse un pianto d'oro. Una forma nuda si svincolava allora dal fogliame e correva a raggiungere le compagne, immobili in lontananza come cerbiatte spaventate, e il santo monaco si rallegrava di aver distrutto uno dei covi del Male. Piantava croci ovunque, e le giovani bestie divine indietreggiavano, fuggivano l'ombra di quella specie di sublime patibolo, lasciando intorno al villaggio santificato una zona sempre più vasta di silenzio e di solitudine. Ma la lotta proseguiva palmo a palmo sulle prime rampe della montagna, che si difendeva a forza di pruni aguzzi e smottamenti di pietre, e di dove cacciare gli dèi risulta più difficile. Alla fine, circondate dalla preghiera e dal fuoco, ridotte all' osso per l'assenza di offerte, prive d'amore da quando i giovani del villaggio avevano preso a evitarle, le Ninfe cercarono rifugio in una valle deserta dove certi pini tutti neri, piantati nel suolo argilloso, facevano pensare a grandi uccelli intenti a uncinare nei loro forti artigli la terra rossa e a volteggiare in cielo con le mille punte sottili delle loro piume d'aquila. Le sorgenti che sgorgavano laggiù sotto cumuli informi di pietre erano troppo fredde per attirare le lavandaie e i pastori. Sul fianco della collina, a mezza altezza, si apriva una grotta, e non vi si poteva entrare che attraverso uno squarcio largo appena quanto basta al passaggio di un corpo. Sempre le Ninfe vi si erano rifugiate nelle sere in cui il temporale disturbava i loro giochi, perché temevano il tuono, come tutte le bestie dei boschi, e ci dormivano anche nelle notti senza luna.


Certi giovani pastori pretendevano di essersi insinuati in quella caverna a rischio della loro salvezza e del vigore della loro gioventù, e non la finivano più di parlare di quei corpi dolci semivisibili nella frescura delle tenebre, e di quelle chiome più intuite che palpate. Per il monaco Terapione, quella grotta dissimulata nel fianco della roccia era come un cancro radicato nel suo stesso petto, e in piedi all'ingresso della valle, con le braccia levate, pregava che il cielo l'aiutasse a distruggere quei pericolosi resti della razza degli dèi.
 Poco dopo la Pasqua, il monaco riunì una sera i più fedeli e i più rozzi fra i suoi seguaci; li armò di zappe e di lanterne; si munì di un crocefisso e li guidò attraverso il dedalo delle colline nelle molli tenebre piene di linfa, impaziente di mettere a profitto quella notte nera. Il monaco Terapione si fermò sulla soglia della grotta, e temendo che subissero qualche tentazione non permise ad alcun discepolo di penetrarvi. Si sentivano gorgogliare le sorgenti, in quell'ombra opaca. Palpitava un debole rumore, dolce come la brezza nelle pinete; era il respiro delle Ninfe addormentate, che sognavano la giovinezza del mondo, il tempo in cui non esisteva ancora l'uomo, e dove la terra non dava vita che agli alberi, alle bestie e agli dèi. I contadini accesero un grande fuoco, ma si dovette rinunziare a bruciare le rocce; il monaco ordinò a tutti di impastare gesso, di trasportare pietre. Alle prime luci dell'alba essi avevano cominciato la costruzione di una piccola cappella appoggiata al fianco della collina, davanti all'imbocco della grotta maledetta. I muri non erano secchi, il tetto non era stato ancora appoggiato, la porta mancava, ma il monaco Terapione sapeva che le Ninfe non avrebbero tentato di scappare attraverso quel luogo santo da lui già consacrato e benedetto. Per maggior sicurezza, al fondo della cappella, proprio dove si apriva la bocca della roccia, aveva piantato un grande Cristo dipinto su una croce dalle quattro braccia eguali, e le Ninfe che capiscono soltanto i sorrisi indietreggiavano inorridite davanti a quell'immagine del Suppliziato. I primi raggi del sole si allungavano timidamente fino alla soglia della caverna: era l'ora in cui le infelici usavano uscire, per cogliere sulle foglie degli alberi vicini il loro primo pasto di rugiada; le prigioniere singhiozzavano, supplicavano il monaco di venir loro in soccorso, e nella loro innocenza gli promettevano di amarlo se avesse acconsentito ad autorizzarle a fuggire. I lavori proseguirono per l'intera giornata, e fino a sera si videro lacrime cader dalla pietra, si sentirono colpi di tosse e grida rauche simili a lamenti di bestie ferite. Il giorno dopo si posò il tetto e lo si ornò con un ciuffo di fiori; si sistemò la porta e si fece girare nella serratura una grossa chiave di ferro. Quella notte i contadini stanchi ridiscesero al villaggio, ma il monaco Terapione si coricò accanto alla cappella da lui costruita, e tutta la notte i lamenti delle sue prigioniere gli impedirono deliziosamente di dormire. Eppure era un uomo compassionevole: si inteneriva difatti su un verme che avesse schiacciato con un piede, o su uno stelo di fiore rotto dallo sfioramento della sua tonaca, ma era simile a un uomo capace di rallegrarsi per aver murato fra due mattoni un nido di giovani vipere.


Il giorno dopo i contadini portarono del latte di calce, intonacarono l'interno e l'esterno della. cappella, che a questo punto prese l'aspetto di una bianca colomba rannicchiata sul seno della roccia. Due uomini del villaggio, meno paurosi degli altri, si avventurarono nella grotta per imbiancarne le pareti umide e porose, perché l'ccqua delle sorgenti e il miele delle api cessassero di trasudare all'interno dell'antro e di sostenere la vita declinante delle donne-fata. Le Ninfe indebolite non avevano più la forza necessaria per manifestarsi agli umani; soltanto qua e là si indovinavano vagamente nella penombra una giovane bocca contratta, due macilente mani in supplica, e la pallida rosa di un seno. Oppure ogni tanto, passando sulle asperità della roccia le grosse dita imbiancate di calce, i contadini sentivano sfuggirsi dalle mani una chioma morbida e tremula come quel capelvenere che cresce negli anfratti umidi e abbandonati. Il corpo disfatto delle Ninfe si decomponeva in vapore, o era sul punto di sbriciolarsi come le ali di una farfalla morta; non smettevano di gemere, ma per cogliere quei deboli lamenti bisognava proprio tendere l'orecchio; non erano già più, ormai, che anime di Ninfe in pianto.
 Per tutta la notte seguente il monaco Terapione continuò a montare la sua guardia di preghiere sulla soglia della cappella, come un anacoreta nel deserto. Si rallegrava pensando che prima del novilunio i lamenti sarebbero cessati, e che le Ninfe morte di fame non sarebbero più state che un'impura memoria. Pregava per affrettare il momento in cui la morte avrebbe liberato le sue prigioniere, perché suo malgrado cominciava a compiangerle, e di questa biasimevole debolezza si vergognava. Più nessuno saliva a trovarlo; il villaggio gli sembrava lontano, situato sull'altra riva del mondo; sul versante opposto della valle egli non scorgeva che terra rossa, e pini, e un sentiero seminascosto sotto gli aghi d'oro. Non sentiva che quei rantoli che andavano sempre decrescendo, e il suono sempre più rauco delle sue stesse preghiere.
 Al declinare di quel giorno egli vide sul sentiero una donna che gli veniva incontro. Camminava con la testa bassa, un po' curva; aveva un mantello e una sciarpa neri, ma una luce misteriosa trapelava da quella stoffa scura, come se lei avesse buttato la notte sul mattino. Benché fosse giovanissima aveva la gravità, la lentezza e la dignità di una donna molto vecchia, e la sua soavità era simile a quella del grappolo maturo e del fiore imbalsamato. Passando davanti alla cappella ella guardò con attenzione il monaco, che ne fu disturbato nelle sue orazioni. - Questo sentiero non porta da nessuna parte, donna - le disse. - Di dove vieni? -- Da Est, come il mattino - disse la giovane - E tu che cosa fai qui, vecchio monaco? -- Ho murato in questa grotta le Ninfe che infestavano ancora la contrada, disse il monaco, e contro l'apertura dell'antro ho costruito una cappella che loro non osano attraversare per fuggire perché sono nude, e a loro modo temono Dio. Aspetto che muoiano di fame e di freddo nella loro caverna, e allora la pace di Dio regnerà sui campi - - Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e ai greggi delle capre?- rispose la giovane.

 - Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan? E altri si fissarono su una montagna, dove divennero dèi dell'Olimpo. Non esaltare, come i pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno per la Sua opera. E nel tuo cuore ringrazia Dio perché ha creato Diana e Apollo -- La mia mente non sa innalzarsi tanto - disse umilmente il vecchio monaco. - Le Ninfe turbano i miei fedeli e mettono in pericolo la loro salvezza di cui io sono responsabile davanti a Dio, e per questo io le perseguiterò, se è necessario, fino all'Inferno. - E si terrà conto del tuo zelo, onesto monaco - disse sorridendo la giovane - Ma non vedi proprio un mezzo per conciliare la vita delle Ninfe e la salvezza dei tuoi fedeli? La sua voce era dolce come la musica di un flauto. Inquieto, il monaco abbassò la testa. La giovane donna gli posò la mano sulla spalla e gli disse con gravità: - Monaco, lasciami entrare in questa grotta. Io amo le grotte, e sento compassione per chi vi cerca rifugio. È in una grotta che io ho messo al mondo il mio bambino, ed è in una grotta che l'ho affidato senza timore alla morte, perché subisse la seconda nascita della Resurrezione. L’anacoreta si fece da parte per lasciarla passare. Senza esitare ella si diresse verso l’entrata della caverna, dissimulata dietro l’altare.La grande croce ne sbarrava la soglia, ella la scostò delicatamente come un oggetto familiare, e s’insinuò nell’antro.Si sentivano nelle tenebre dei gemiti più acuti, dei pigolii e come un frusciare di ali. La giovane parlava alle Ninfe in una lingua sconosciuta che era forse quella degli uccelli e degli angeli. Dopo un po' riapparve accanto al monaco, che non aveva smesso di pregare. - Guarda, monaco, disse, e ascolta. Innumerevoli gridolini stridenti le uscivano di sotto il mantello. Ne scostò i lembi, e il monaco Terapione vide che nelle pieghe del suo abito ella portava centinaia di giovani rondini. Come una donna in preghiera spalancò le braccia, dando così libertà agli uccelli. Poi, con voce chiara come il suono di un'arpa, ella disse: - Andate, mie creature. Le rondini liberate filarono via nel cielo della sera, descrivendo indecifrabili segni con il becco e con l'ala. Il vecchio e la giovane donna le seguirono per un po' con lo sguardo, poi la pellegrina disse al solitario: - Ritorneranno ogni anno, e tu le accoglierai nella mia chiesa. Addio, Terapione. E Maria se ne andò per il sentiero che non porta da nessuna parte, come una donna a cui importi ben poco che le strade finiscano, dal momento che sa come camminare nel cielo. Il monaco Terapione scese al villaggio, e il giorno dopo, quando risalì per celebrare la Messa, la grotta delle Ninfe era tappezzata di nidi di rondini. Ritornarono ogni anno; andavano e venivano per la chiesa, tutte intente a nutrire i loro piccoli e a consolidare le loro case d'argilla, e il monaco Teerapione si interrompeva sovente nelle sue preghiere per seguire, intenerito, i loro amori e i loro giochi, perché ciò che è proibito alle Ninfe è permesso alle rondini.Il monaco Terapione era stato in gioventù il più fedele discepolo del grande Atanasio; era rude, austero, dolce soltanto verso le creature nelle quali non sospettasse la presenza di diavoli.

In Egitto aveva risuscitato ed evangelizzato delle mummie; a Bisanzio aveva confessato imperatori; era venuto in Grecia sulla fede di un sogno, con l'intenzione di esorcizzare questa terra ancora soggetta ai sortilegi di Pan. S'infiammava di odio vedendo certi alberi sacri ai quali i contadini colpiti dalla febbre appendevano stracci incaricati di tremare per loro al minimo alito serale, i falli eretti nei campi per obbligare il suolo a dare il raccolto e gli dèi d'argilla annidati negli incavi dei muri e nella conca delle sorgenti. Si era costruito con le sue proprie mani un'esigua capanna sugli argini del Cefiso, avendo cura di usare soltanto materiali benedetti. I contadini dividevano con lui il loro scarso nutrimento, ma benché quella gente fosse sparuta, livida e scoraggiata dalle carestie e dalle guerre che le si erano riversate sul capo, Terapione non riusciva a volgerla dalla parte del cielo. Adoravano Gesù, il figlio di Maria, vestito d'oro come un sole nascente, ma il loro cuore ostinato restava fedele alle divinità che si annidano negli alberi o emergono dal ribollìo delle acque; ogni sera posavano sotto il platano consacrato alle Ninfe una scodella di latte della sola capra superstite; i giovani s'insinuavano a mezzogiorno sotto i boschetti per spiare quelle donne dagli occhi verdi che si nutrono di timo e di miele. Pullulavano ovunque, figli di quella terra dura e secca dove ciò che altrove si dissipa in vapore assume subito sagoma e sostanza di realtà. Si ritrovava traccia dei loro passi nella terra argillosa delle fontane, e il candore dei loro corpi si confondeva di lontano con lo scintillìo delle rocce. Capitava perfino che una Ninfa mutilata sopravvivesse ancora nella trave rozzamente piallata che sosteneva un tetto, e la notte la si sentiva lamentarsi e cantare. Quasi ogni giorno qualche mandria stregata si perdeva nella montagna, e qualche mese più tardi non se ne trovava che un mucchietto di ossa. Le Maligne prendevano per mano i bambini e li portavano a ballare sull'orlo dei precipizi; i loro piedi leggeri non toccavano terra, ma l'abisso risucchiava i corpicini pesanti. Oppure un ragazzo lanciato sulla loro pista ridiscendeva trafelato, tremante di febbre per aver bevuto la morte con l'acqua di una sorgente. Dopo ogni disastro il monaco Terapione mostrava il pugno ai boschi dove le Maledette si nascondevano, ma i contadini continuavano ad amare quelle fresche fate seminvisibili, e le perdonavano per i loro misfatti come si perdona al sole che disintegra il cervello dei matti, alla luna che succhia il latte delle madri addormentate, e all'amore che fa tanto soffrire. Il monaco le temeva come un branco di lupe, e loro lo irritavano come un gregge di prostitute. Quelle lunatiche belle non gli davano pace: la notte ne sentiva sul viso l'alito caldo, simile a quello di una bestia male addomesticata timidamente si aggiri in una camera. si avventurava per la campagna munito del viatico per un malato, sentiva risuonare dietro di sé quel trotto capriccioso e sincopato da giovani capre; se gli capitava, nonostante i suoi sforzi, addormentarsi all' ora della preghiera, eccole lì in tutta innocenza a tirargli la barba. Non cercavano di sedurlo, perché lo trovavano brutto, buffo e vecchissimo nei suoi spessi abiti di saio scuro, e malgrado la loro bellezza non risvegliavano in lui alcun desiderio impuro, perché la loro nudità gli ripugnava come la carne pallida del bruco e il derma liscio delle serpi. Lo inducevano tuttavia in tentazione, perché finiva per dubitare della saggezza di Dio che ha modellato tante creature inutili e dannose, come se la creazione non fosse che un gioco malefico nel quale Egli trovasse compiacimento.

 Un mattino gli abitanti del villaggio trovarono il loro monaco tutto intento a segare il platano delle Ninfe, e doppiamente se ne addolorarono. Da un lato infatti temevano la vendetta delle fate, che se ne sarebbero andate portandosi via le sorgenti, e dall'altro quel platano dava ombra allo spiazzo dove usavano riunirsi per danzare. Ma non rimproverarono il santo uomo per timore di guastarsi con il Padre che è nei cieli, dispensatore di pioggia e di sole. Se ne stettero zitti, e i progetti del monaco Terapione contro le Ninfe furono incoraggiati da quel silenzio. Non usciva più senza due selci dissimulate nella piega della manica, e la sera, di nascosto, quando non vedeva ombra di contadino nella campagna deserta, dava fuoco a un vecchio ulivo il cui tronco cariato avesse l'aria di nascondere qualche dea, o a un giovane pino scaglioso la cui resina versasse un pianto d'oro. Una forma nuda si svincolava allora dal fogliame e correva a raggiungere le compagne, immobili in lontananza come cerbiatte spaventate, e il santo monaco si rallegrava di aver distrutto uno dei covi del Male. Piantava croci ovunque, e le giovani bestie divine indietreggiavano, fuggivano l'ombra di quella specie di sublime patibolo, lasciando intorno al villaggio santificato una zona sempre più vasta di silenzio e di solitudine. Ma la lotta proseguiva palmo a palmo sulle prime rampe della montagna, che si difendeva a forza di pruni aguzzi e smottamenti di pietre, e di dove cacciare gli dèi risulta più difficile. Alla fine, circondate dalla preghiera e dal fuoco, ridotte all' osso per l'assenza di offerte, prive d'amore da quando i giovani del villaggio avevano preso a evitarle, le Ninfe cercarono rifugio in una valle deserta dove certi pini tutti neri, piantati nel suolo argilloso, facevano pensare a grandi uccelli intenti a uncinare nei loro forti artigli la terra rossa e a volteggiare in cielo con le mille punte sottili delle loro piume d'aquila. Le sorgenti che sgorgavano laggiù sotto cumuli informi di pietre erano troppo fredde per attirare le lavandaie e i pastori. Sul fianco della collina, a mezza altezza, si apriva una grotta, e non vi si poteva entrare che attraverso uno squarcio largo appena quanto basta al passaggio di un corpo. Sempre le Ninfe vi si erano rifugiate nelle sere in cui il temporale disturbava i loro giochi, perché temevano il tuono, come tutte le bestie dei boschi, e ci dormivano anche nelle notti senza luna. Certi giovani pastori pretendevano di essersi insinuati in quella caverna a rischio della loro salvezza e del vigore della loro gioventù, e non la finivano più di parlare di quei corpi dolci semivisibili nella frescura delle tenebre, e di quelle chiome più intuite che palpate. Per il monaco Terapione, quella grotta dissimulata nel fianco della roccia era come un cancro radicato nel suo stesso petto, e in piedi all'ingresso della valle, con le braccia levate, pregava che il cielo l'aiutasse a distruggere quei pericolosi resti della razza degli dèi. Poco dopo la Pasqua, il monaco riunì una sera i più fedeli e i più rozzi fra i suoi seguaci; li armò di zappe e di lanterne; si munì di un crocefisso e li guidò attraverso il dedalo delle colline nelle molli tenebre piene di linfa, impaziente di mettere a profitto quella notte nera. Il monaco Terapione si fermò sulla soglia della grotta, e temendo che subissero qualche tentazione non permise ad alcun discepolo di penetrarvi. Si sentivano gorgogliare le sorgenti, in quell'ombra opaca.

Palpitava un debole rumore, dolce come la brezza nelle pinete; era il respiro delle Ninfe addormentate, che sognavano la giovinezza del mondo, il tempo in cui non esisteva ancora l'uomo, e dove la terra non dava vita che agli alberi, alle bestie e agli dèi. I contadini accesero un grande fuoco, ma si dovette rinunziare a bruciare le rocce; il monaco ordinò a tutti di impastare gesso, di trasportare pietre. Alle prime luci dell'alba essi avevano cominciato la costruzione di una piccola cappella appoggiata al fianco della collina, davanti all'imbocco della grotta maledetta. I muri non erano secchi, il tetto non era stato ancora appoggiato, la porta mancava, ma il monaco Terapione sapeva che le Ninfe non avrebbero tentato di scappare attraverso quel luogo santo da lui già consacrato e benedetto. Per maggior sicurezza, al fondo della cappella, proprio dove si apriva la bocca della roccia, aveva piantato un grande Cristo dipinto su una croce dalle quattro braccia eguali, e le Ninfe che capiscono soltanto i sorrisi indietreggiavano inorridite davanti a quell'immagine del Suppliziato. I primi raggi del sole si allungavano timidamente fino alla soglia della caverna: era l'ora in cui le infelici usavano uscire, per cogliere sulle foglie degli alberi vicini il loro primo pasto di rugiada; le prigioniere singhiozzavano, supplicavano il monaco di venir loro in soccorso, e nella loro innocenza gli promettevano di amarlo se avesse acconsentito ad autorizzarle a fuggire. I lavori proseguirono per l'intera giornata, e fino a sera si videro lacrime cader dalla pietra, si sentirono colpi di tosse e grida rauche simili a lamenti di bestie ferite. Il giorno dopo si posò il tetto e lo si ornò con un ciuffo di fiori; si sistemò la porta e si fece girare nella serratura una grossa chiave di ferro. Quella notte i contadini stanchi ridiscesero al villaggio, ma il monaco Terapione si coricò accanto alla cappella da lui costruita, e tutta la notte i lamenti delle sue prigioniere gli impedirono deliziosamente di dormire. Eppure era un uomo compassionevole: si inteneriva difatti su un verme che avesse schiacciato con un piede, o su uno stelo di fiore rotto dallo sfioramento della sua tonaca, ma era simile a un uomo capace di rallegrarsi per aver murato fra due mattoni un nido di giovani vipere. Il giorno dopo i contadini portarono del latte di calce, intonacarono l'interno e l'esterno della. cappella, che a questo punto prese l'aspetto di una bianca colomba rannicchiata sul seno della roccia. Due uomini del villaggio, meno paurosi degli altri, si avventurarono nella grotta per imbiancarne le pareti umide e porose, perché l'acqua delle sorgenti e il miele delle api cessassero di trasudare all'interno dell'antro e di sostenere la vita declinante delle donne-fata. Le Ninfe indebolite non avevano più la forza necessaria per manifestarsi agli umani; soltanto qua e là si indovinavano vagamente nella penombra una giovane bocca contratta, due macilente mani in supplica, e la pallida rosa di un seno. Oppure ogni tanto, passando sulle asperità della roccia le grosse dita imbiancate di calce, i contadini sentivano sfuggirsi dalle mani una chioma morbida e tremula come quel capelvenere che cresce negli anfratti umidi e abbandonati. Il corpo disfatto delle Ninfe si decomponeva in vapore, o era sul punto di sbriciolarsi come le ali di una farfalla morta;

 non smettevano di gemere, ma per cogliere quei deboli lamenti bisognava proprio tendere l'orecchio; non erano già più, ormai, che anime di Ninfe in pianto. Per tutta la notte seguente il monaco Terapione continuò a montare la sua guardia di preghiere sulla soglia della cappella, come un anacoreta nel deserto. Si rallegrava pensando che prima del novilunio i lamenti sarebbero cessati, e che le Ninfe morte di fame non sarebbero più state che un'impura memoria.
Pregava per affrettare il momento in cui la morte avrebbe liberato le sue prigioniere, perché suo malgrado cominciava a compiangerle, e di questa biasimevole debolezza si vergognava. Più nessuno saliva a trovarlo; il villaggio gli sembrava lontano, situato sull'altra riva del mondo; sul versante opposto della valle egli non scorgeva che terra rossa, e pini, e un sentiero seminascosto sotto gli aghi d'oro. Non sentiva che quei rantoli che andavano sempre decrescendo, e il suono sempre più rauco delle sue stesse preghiere. Al declinare di quel giorno egli vide sul sentiero una donna che gli veniva incontro. Camminava con la testa bassa, un po' curva; aveva un mantello e una sciarpa neri, ma una luce misteriosa trapelava da quella stoffa scura, come se lei avesse buttato la notte sul mattino. Benché fosse giovanissima aveva la gravità, la lentezza e la dignità di una donna molto vecchia, e la sua soavità era simile a quella del grappolo maturo e del fiore imbalsamato. Passando davanti alla cappella ella guardò con attenzione il monaco, che ne fu disturbato nelle sue orazioni. - Questo sentiero non porta da nessuna parte, donna - le disse. - Di dove vieni? -- Da Est, come il mattino - disse la giovane - E tu che cosa fai qui, vecchio monaco? -- Ho murato in questa grotta le Ninfe che infestavano ancora la contrada, disse il monaco, e contro l'apertura dell'antro ho costruito una cappella che loro non osano attraversare per fuggire perché sono nude, e a loro modo temono Dio. Aspetto che muoiano di fame e di freddo nella loro caverna, e allora la pace di Dio regnerà sui campi - - Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e ai greggi delle capre?- rispose la giovane. - Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan? E altri si fissarono su una montagna, dove divennero dèi dell'Olimpo. Non esaltare, come i pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno per la Sua opera. E nel tuo cuore ringrazia Dio perché ha creato Diana e Apollo -- La mia mente non sa innalzarsi tanto - disse umilmente il vecchio monaco. - Le Ninfe turbano i miei fedeli e mettono in pericolo la loro salvezza di cui io sono responsabile davanti a Dio, e per questo io le perseguiterò, se è necessario, fino all'Inferno. - E si terrà conto del tuo zelo, onesto monaco - disse sorridendo la giovane - Ma non vedi proprio un mezzo per conciliare la vita delle Ninfe e la salvezza dei tuoi fedeli? La sua voce era dolce come la musica di un flauto. Inquieto, il monaco abbassò la testa. La giovane donna gli posò la mano sulla spalla e gli disse con gravità: - Monaco, lasciami entrare in questa grotta. Io amo le grotte, e sento compassione per chi vi cerca rifugio.


È in una grotta che io ho messo al mondo il mio bambino, ed è in una grotta che l'ho affidato senza timore alla morte, perché subisse la seconda nascita della Resurrezione. L’anacoreta si fece da parte per lasciarla passare. Senza esitare ella si diresse verso l’entrata della caverna, dissimulata dietro l’altare. La grande croce ne sbarrava la soglia, ella la scostò delicatamente come un oggetto familiare, e s’insinuò nell’antro. Si sentivano nelle tenebre dei gemiti più acuti, dei pigolii e come un frusciare di ali. La giovane parlava alle Ninfe in una lingua sconosciuta che era forse quella degli uccelli e degli angeli.
Dopo un po' riapparve accanto al monaco, che non aveva smesso di pregare. - Guarda, monaco, disse, e ascolta. Innumerevoli gridolini stridenti le uscivano di sotto il mantello. Ne scostò i lembi, e il monaco Terapione vide che nelle pieghe del suo abito ella portava centinaia di giovani rondini. Come una donna in preghiera spalancò le braccia, dando così libertà agli uccelli. Poi, con voce chiara come il suono di un'arpa, ella disse: - Andate, mie creature. Le rondini liberate filarono via nel cielo della sera, descrivendo indecifrabili segni con il becco e con l'ala. Il vecchio e la giovane donna le seguirono per un po' con lo sguardo, poi la pellegrina disse al solitario: - Ritorneranno ogni anno, e tu le accoglierai nella mia chiesa. Addio, Terapione. E Maria se ne andò per il sentiero che non porta da nessuna parte, come una donna a cui importi ben poco che le strade finiscano, dal momento che sa come camminare nel cielo. Il monaco Terapione scese al villaggio, e il giorno dopo, quando risalì per celebrare la Messa, la grotta delle Ninfe era tappezzata di nidi di rondini. Ritornarono ogni anno; andavano e venivano per la chiesa, tutte intente a nutrire i loro piccoli e a consolidare le loro case d'argilla, e il monaco Teerapione si interrompeva sovente nelle sue preghiere per seguire, intenerito, i loro amori e i loro giochi, perché ciò che è proibito alle Ninfe è permesso alle rondini.